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Che succede tra Alfano, Renzi e Verdini

Curioso destino quello di Denis Verdini, e di quanti lo hanno seguito, o ne sono tentati, nell’abbandono di Silvio Berlusconi.

Staccatosi da Forza Italia per aiutare Matteo Renzi nell’eterno braccio di ferro con la minoranza del Pd, garantendo al presidente del Consiglio i voti necessari a non perdere la fiducia parlamentare al Senato in caso di rottura con i dissidenti interni, ora Verdini si  trova impantanato in un’operazione di segno diametralmente opposto. Che sarà più difficile, direi anzi impossibile spiegare e fare digerire agli elettori.

Verdini ora serve a Renzi non più per spingere la minoranza del Pd a preferire l’ennesimo compromesso alla scissione, ma per spegnere i fuochi nel partito di Angelino Alfano, anch’esso nato da una rottura con Berlusconi.

E’ un partito, quello del ministro dell’Interno, dove cresce la voglia di alzare il prezzo dell’alleanza di governo con il presidente del Consiglio su temi elettoralmente sensibili come la disciplina delle unioni civili, cioè delle coppie omosessuali, o elettoralmente meno sensibili ma ancora più vitali per un piccolo movimento: la difesa della propria sopravvivenza dai rischi del premio di maggioranza, introdotto nelle regole per il rinnovo della Camera a favore non di una coalizione, di cui gli alfaniani potrebbero o vorrebbero far parte anche con Renzi, ma della lista più votata. Una lista nella quale il segretario del Pd e presidente del Consiglio, dovendo garantire la presenza della sua minoranza di sinistra trattenuta sulla strada della scissione grazie allo spauracchio dei voti sostitutivi di Verdini al Senato, ben difficilmente potrà aprire la porta a tutti gli alfaniani che dovessero aspirare ad entrare.

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Nel ruolo di contenimento dell’azione, della presenza e del potere contrattuale del partito di Alfano, Verdini non si trova in difficoltà solo per motivi di geografia politica, provenendo pure lui e i suoi dall’area del centrodestra. E neppure, più di tanto, per le spinose dispute legislative sulla disciplina delle coppie omosessuali, cui francamente i verdiniani non sono sembrati sinora molto interessati, né a favore né contro.

No, le difficoltà maggiori di Verdini e amici derivano dal fatto che anche a loro serve, come agli alfaniani, la protezione dal rischio di pagare pesantemente, in termini di candidature, le spese del premio di maggioranza alla lista, anziché alla coalizione più votata nel rinnovo della Camera. Cui i verdiniani più loquaci e genuini hanno annunciato di volere concorrere scrivendosi anche “sulla fronte”, come ha detto il senatore Vincenzo D’Anna, “con Renzi o per Renzi”.

Sul piano logico Verdini dovrebbe quindi non contenere ma aiutare, anzi aggiungersi alle aspirazioni degli alfaniani, essendo comune l’interesse a tornare al premio di coalizione. Ma quel furbacchione di Renzi sa che la politica è fatta anche di pancia, e non solo di testa. E la pancia dei fuoriusciti da Forza Italia è una pentola di rivalità vecchie e nuove, di ambizioni frustrate, di accuse atroci, di sospetti infamanti.

Alfano ruppe con Berlusconi nel 2013 procurandosi l’accusa di traditore sia da Raffaele Fitto sia da Verdini. Poi ha rotto Fitto, accusando Berlusconi di non opporsi a sufficienza a Renzi e prendendosi l’accusa di traditore dai verdiniani, Ora hanno rotto i verdiniani ma per i motivi opposti a quelli di Fitto, per cui non possono convergere con lui. Ma neppure con Alfano perché pesano le scorie delle polemiche roventi di due anni fa. E Renzi viene umanamente tentato dall’interesse di usare  ora gli uni, ora gli altri, o gli uni contro gli altri, sapendo che alla fine tutti lavorano, volenti o nolenti, per la sua conquista della parte autenticamente moderata del vecchio elettorato di centrodestra.

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Nell’ottica renziana di assorbimento degli elettori moderati di quello che ormai fu il centrodestra – un’ottica nella quale gli giova anche la continua tensione con la minoranza del suo partito, ma ancor più gli gioverebbe una scissione – alla Lega dell’altro Matteo, cioè Salvini, resterebbe la suburra, o quasi, dell’ex area berlusconiana. Una suburra numerosa, alimentata soprattutto dalle paure non sempre immotivate derivanti da un’immigrazione tanto crescente quanto difficile da governare, ma che non basterà di certo a Salvini per diventare da solo, o con quella pur graziosa cerbiatta di Giorgia Meloni, una realistica alternativa elettorale e politica a Renzi. Non basterà, anche se il segretario della Lega è coraggioso e lungimirante quando sostiene che l’unico modo per fermare la fuga di tanti disperati dalla Siria e dintorni è fare la guerra vera al Califfato dei tagliagole.


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