“Per risparmiare tempo, la salma di Pietro Ingrao sarà sepolta già rivoltata”, diceva la cattiveria, urticante e fulminante rubrica di prima pagina del Fatto Quotidiano quando non erano ancora state celebrate sulla piazza di Montecitorio le esequie di Stato dell’ex presidente della Camera, a lungo dirigente del Partito Comunista. Che, secondo quelli del Fatto, sarà quindi tradito anche da morto da una sinistra opportunistica e corrotta.
Bastava mescolarsi tra i militanti accorsi davanti a Montecitorio con bandiere rosse e pugni chiusi per raccoglierne i borbottii sulla presenza, fra le autorità, del pur compunto presidente del Consiglio e segretario del Pd Matteo Renzi. Che gode d’impopolarità assoluta sul versante della sinistra adatta più alla lotta che al governo, attratta più dalla luna che dalla terra, per rifarsi proprio alla più famosa delle metafore ingraiane.
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Ora, ad esequie ormai avvenute, quando comincia a depositarsi la polvere dell’emozione e della retorica anche dalle parti della sinistra più di governo che di lotta, è augurabile che di Ingrao si parli finalmente in termini realistici. Ciò comporta il riconoscimento, oltre che dei meriti e delle ragioni, anche dei suoi errori. E dei danni che pure lui ha arrecato alla sua parte politica caricandola più di illusioni che di realismo. Egli spinse spesso i compagni a portare i loro cuori oltre l’ostacolo per lasciarli poi soli, preferendo personalmente il compromesso o la disciplina di partito alla coerenza. O praticando la coerenza del potere. Che non è detto sia solo e sempre quello di chi governa. C’è anche il potere di chi fa l’opposizione guidando o partecipando alla guida del partito che la pratica.
Quello del Pci è stato a lungo un potere nel potere. E Ingrao vi è appartenuto in pieno pure lui, sino ad essere assurto non certo casualmente al vertice della Camera negli anni della maggioranza di cosiddetta solidarietà nazionale, quando il suo partito appoggiava dall’esterno, condizionandone programma e azione, un governo interamente democristiano condotto da Giulio Andreotti. Un governo monocolore, come si dice in gergo tecnico, che aveva fra i suoi meriti o vantaggi, per la dirigenza comunista, quello di escludere il partito socialista, guardato sempre con sospetto dai comunisti ma diventato ai loro occhi, e alla loro pancia, insopportabile con l’arrivo di quell’intruso e troppo autonomo Bettino Craxi alla segreteria. Un intruso proprio come a sinistra molti oggi considerano Renzi, spintosi ben oltre Craxi conquistando la guida del partito nato dalla fusione fra i resti del Pci e quelli della sinistra democristiana, per cui si trova nella curiosa condizione di rappresentare sia gli uni che gli altri.
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Di Ingrao alla presidenza della Camera, fra il 1976 e il 1979, è stata in questi giorni esaltata, per esempio da uno dei suoi successori e poi anche presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, la esemplare correttezza. Anche nelle drammatiche settimane – si è ricordato – del sequestro del deputato Aldo Moro, fra il 16 marzo 1978, quando il presidente della Dc fu rapito vicino casa dalle brigate rosse, e il 9 maggio, quando il suo cadavere, rannicchiato nel bagagliaio di un’auto rossa, fu fatto trovare in via Caetani: una strada scelta perché situata fra le sedi nazionali del Pci e della Democrazia Cristiana.
Anche ad Ingrao, come all’allora presidente del Senato Amintore Fanfani, il povero Moro aveva scritto inutilmente dalla sua prigione per “scongiurarLa di adoperarsi, nei modi più opportuni, affinché sia avviata, con le adeguate garanzie, un’equa trattativa umanitaria che consenta di procedere ad uno scambio di prigionieri politici e a me di tornare in seno alla famiglia che ha grave e urgente bisogno di me”.
Ingrao certamente non poteva sostituirsi al governo e perorare una “trattativa”, per quanto “equa” e “umanitaria”, per scambiare il rapito con il rilascio di detenuti promossi anche da Moro, nelle terribili condizioni in cui si trovava, al rango di “prigionieri politici”. Ma il presidente della Camera poteva, anzi doveva, a mio modestissimo avviso, adoperarsi almeno per un dibattito parlamentare. Che non si negava e non si nega a niente e a nessuno, ma che a quella vicenda e a Moro fu invece negato.
Nell’aula di Montecitorio si potette parlare di Moro solo a sequestro appena avvenuto, in occasione della fiducia ad un governo appena ricostituito da Andreotti, e poi a tragedia consumata, dopo 55 lunghissimi e tragici giorni.
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Cattiverie del Fatto anche in chiusura. Imbattibile, a suo modo, quella sul taxi garantito da Denis Verdini a chi vuole passare da Berlusconi a Renzi: uno “spreco” per “due passi”. Imbattibile come l’involontario titolo del Giornale che riconosce a Verdini quello che dovrebbe essere, da quelle parti, un merito: “Far male al Pd” procurandogli nei sondaggi, con il suo avvicinamento a Renzi, una perdita del 7 per cento dei voti. Che sale però all’8 sul Fatto.