Non ditelo a Eugenio Scalfari, per favore, perché potrebbe o montarsi troppo la testa o rimanerci malissimo, prestandosi il fatto ad entrambe le reazioni.
La buona notizia è che il suo intervento, nell’ultimo appuntamento domenicale con gli elettori, a favore degli otto referendum promossi da Pippo Civati contro Matteo Renzi, cercando di abolirne le leggi sul lavoro, sulla scuola ed altro, ha permesso in pochi giorni al deputato ormai ex pd di portare a trecentomila le firme che sino a metà settembre erano poche migliaia.
Trecentomila sono un bel numero. Se fossero stati tanti i militari a disposizione del Papa, e non solo le poco più di cento guardie svizzere, Stalin si sarebbe forse risparmiata la storica e beffarda domanda su quante truppe avesse il Pontefice.
La brutta notizia è che le trecentomila firme hanno vanificato l’operazione di Civati, che avrebbe dovuto raccoglierne almeno cinquecentomila, ma in realtà seicentomila, al lordo di quelle che normalmente non superano il controllo di regolarità della Cassazione, per poterle depositare al Palazzaccio e innescare la seconda marcia referendaria. La terza sarebbe stata costituita dal giudizio della magistratura ordinaria e la quarta dal verdetto di ammissibilità da parte della Corte Costituzionale.
Non sarà quindi possibile né a Civati di guidare la campagna elettorale né a Scalfari di partecipare ai referendum, secondo i suoi dichiarati propositi, per cercare di sconfiggere il presidente del Consiglio e dimostrargli l’inconsistenza del pur “rassegnato entusiasmo” del quale gode riuscendo a mettere sempre nell’angolo le opposizioni parlamentari, esterne e interne al suo partito.
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La delusione di Scalfari dopo il flop dell’operazione referendaria tentata da Civati contro il governo, a ben guardare, potrebbe essere doppia. Una per il flop in sé, l’altra per l’ingratitudine di Civati, che alla scadenza del termine di fine settembre per la raccolta delle firme, in una intervista al Manifesto del 1° ottobre, non ha pronunciato una parola per riconoscere l’aiuto ricevuto dal fondatore della Repubblica.
Il deputato antirenziano ha tenuto a lamentare l’ostilità o l’indifferenza oppostagli, per tante ragioni, dalla Cgil in blocco, desiderosa di promuovere l’anno prossimo un referendum tutto suo contro il cosiddetto jobs act, e da parti consistenti dei vendoliani, dei verdi e della minoranza del Pd, ma non ad apprezzare il soccorso di Scalfari. Grazie al quale egli ha potuto moltiplicare per 60 i 5000 iscritti al suo movimento “Possibile” e dichiararsi per questo ugualmente soddisfatto delle tante firme raccolte. Sino a calcolare – non si capisce con quali criteri – addirittura in 2 milioni i “potenziali” aderenti alle sue iniziative contro il “turboliberista” Renzi e il “troppo egemone” Pd, con cui Civati ritiene che una vera sinistra non possa più allearsi neppure in sede locale, cioè nelle elezioni amministrative dell’anno prossimo.
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Ridotti a sostituire l’allergia a Silvio Berlusconi con quella a Denis Verdini, il povero Pier Luigi Bersani e compagni trascorrono ormai il loro tempo nelle aule parlamentari a verificare nelle votazioni le presenze e il peso dei verdiniani per beccare Renzi in fragranza, diciamo così, di contaminazione. Tale sarebbe infatti quella procurata da Verdini e amici, e gradita da Renzi, in caso risultassero determinanti i loro voti per la maggioranza.
Fra i compagni di Bersani ce ne sono anche di addetti a spulciare dichiarazioni, mormorii e sospiri di simpatia per Renzi da parte degli ultimi fuoriusciti da Forza Italia per gridare allo scandalo, e denunciare l’inquinamento delle acque del presidente del Consiglio, o del “giardino” del Pd.
Le grida e denunce dei bersaniani sono puntualmente rilanciate, nel solito gioco di sponda, dai giornali e giornalini, anche di destra, che contrastano o sopportano malvolentieri quel “dittatore” in erba, o ben cresciuto, di Renzi, come lo ha definito Giampaolo Pansa. Che ha appena spento le sue ottanta candeline – auguri, Giampa – e ha pensato anche al segretario del Pd scrivendo della ”Italiaccia senza pace” nel suo penultimo libro: penultimo perché sicuramente il mio amico ne sta già preparando un altro con il solito binocolo appoggiato sulla scrivania: quello che gli serviva da giovane nei congressi per vedere bene scene e personaggi prima di scriverne in modo abitualmente urticante. Al quale neppure Renzi è riuscito a sottrarsi, senza per questo doversi disperare perché gli potrebbe anche portare fortuna.