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Cosa farà Obama in Siria?

Mentre gli analisti sembrano ormai avere pochi dubbi sulle reali intenzioni siriane della Russia, più preoccupata di colpire i ribelli che si oppongono all’alleato Bashar al-Assad che non i tagliagole dello Stato Islamico, il dibattito si concentra nuovamente sulla strategia adottata dalla Casa Bianca.

LE CRITICHE A OBAMA

Non sono pochi, in Europa e Oltreoceano, a credere che Barack Obama pecchi di troppo attendismo nei confronti della crisi di Damasco e stia facendo sì che persino un personaggio in difficoltà come Vladimir Putin accresca il proprio prestigio internazionale. Si va dai toni forti di Charles Krauthammer che sul Washington Post parla di “débâcle” e “umiliazione” per l’amministrazione Usa, a quelli più concilianti ma senz’altro non teneri del Wall Street Journal, che sottolinea come “la situazione siriana riveli il caos di un mondo senza la leadership Usa” (lasciando dunque intendere che oggi se ne sia sprovvisti, almeno in parte).

LA TRACOTANZA RUSSA

Ma non è solo il presidente americano ad essere sotto accusa. L’11 settembre scorso, su Libero, Carlo Panella ha posto alla coalizione internazionale anti Isis una critica strisciante anche negli Stati Uniti (prevalentemente in ambienti repubblicani), ovvero che “la reazione degli Stati Uniti, dell’Europa e della Nato all’evidenza del impegno militare diretto della Russia in Siria è stata tanto scomposta, dilettantesca e difensiva che il ministro degli Esteri di Mosca Sergej Lavrov ha avuto buon agio a rispondere addirittura con frasi di dileggio, al limite della presa in giro. Innanzitutto, ha rimarcato Panella, “Lavrov, ha detto di stupirsi per lo stupore occidentale «perché da anni in Siria vi sono militari russi», poi ha affermato che «le critiche americane agli aiuti russi per Assad aiutano solo l’Isis», ha ricordato – perfidamente – che questi aiuti a Damasco «sono finalizzati a evitare uno scenario libico» (mettendo così il dito sulla piaga sui risultati della infausta guerra contro Gheddafi voluta da Obama, Cameron e Hollande)”.

LE RAGIONI (E LE MOSSE) DI PUTIN

Ciò che spinge la Russia ad avere un atteggiamento così aggressivo, quasi irridente, spiega il New York Times (vicino all’amministrazione democratica), è la scommessa che “difendendo Assad possa incrementare la propria influenza negli equilibri post-conflitto, proteggere la base navale e contrastare la presenza regionale di un rivale come la Turchia, membro dell’Alleanza Atlantica. Oltre a rafforzare la propria immagine interna, quale leader forte che rivaleggia con il principale nemico, gli Stati Uniti”. Infine, sta cercando inoltre di dimostrarsi affidabile agli occhi europei e americani (quale migliore occasione della guerra al terrore?), per distogliere l’attenzione dall’Ucraina, “congelare” il conflitto di Kiev e, magari, farsi perdonare qualche intemperanza di troppo. Per raggiungere questi obiettivi, però, Putin gioca d’azzardo. Mercoledì scorso, dopo il via libera della Duma – il Parlamento russo – caccia di Mosca sono volati sui cieli siriani su richiesta diretta di Assad. Un intervento giustificato con la volontà di contrastare i drappi neri, ma nei fatti (qui una mappa dell’Institute for the study of wari raid russi si sono concentrati in particolare su tre province, Homs, Hama e Latakia, dove non è presente l’Isis, bensì gruppi ribelli ostili al dittatore siriano. Questo sostegno di Mosca ad Assad rappresenta ancora un punto di distanza tra il Cremlino e la Casa Bianca, che ha anche lamentato che alcuni i caccia russi in Siria hanno deliberatamente colpito “dei ribelli addestrati dalla Cia”.

LA SCELTA DI OBAMA

Obama, però, non pare intenzionato a seguire Putin su questo terreno e a portare in Siria i cosiddetti boots on the ground, anche a costo di beccarsi qualche critica politica di troppo. Perché? Pur evidenziando che a suo parere “Putin ha una strategia più chiara”, Fareed Zakaria, volto di Cnn ed editorialista del WaPo, pone in evidenza uno dei dilemmi della Casa Bianca: “L’esercito americano – spiega – potrebbe facilmente sconfiggere lo Stato Islamico, che ha una forza militare dotata di armi leggere di meno di 30mila uomini. Ma allora bisogna occupare anche fisicamente gli immobili in Siria. Chi vuole” e può “governare quel territorio, proteggere la popolazione ed essere visto dalla gente del posto come una presenza legittima? Un alto funzionario turco ha detto di recente: “Abbiamo visto voi (gli americani, ndr) governare le città irachene, e non faremo gli errori degli Stati Uniti” già visti a Baghdad o Kabul”.
Se si guarda indietro, ai numerosi interventi degli Usa in tutto il mondo, aggiunge ancora Zakaria, un fattore incombe. “Quando l’America si è alleata con una forza locale che era vista come capace e legittima”, allora è “riuscita” nel suo intento. Ma senza questi locali, tutto lo sforzo esterno, gli aiuti, la potenza di fuoco e la formazione possono solo fare solo ciò” a cui assistiamo adesso. È dunque questa valutazione ad aver frenato finora il presidente americano in Siria?

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