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Perché Isis innesca la guerra anche in Turchia

Ad Ankara prende corpo l’ipotesi che dietro all’attentato di ieri ci sia la mano dello Stato islamico. Il bilancio è ancora da ritenersi provvisorio, ma conta 95 morti e 245 feriti, di cui 48 in gravi condizioni. L’HDP, il partito moderato curdo, ha fatto sapere che secondo i suoi dati i morti sarebbero 122, di cui 77 già riconosciuti. I numeri servono per rendere la dimensione della tragedia; il rincorrersi di notizie e smentite sulla conta finale rende invece idea di come le autorità turche stanno affrontando la situazione: silenzio, chiusura, un muro; è stata vietata al diffusione delle tante immagini della tragedia.

Stamattina una folla di migliaia di manifestanti accorsi in lutto nei luoghi vicini alla stazione centrale della capitale turca, dove sono avvenute le esplosioni, è stata dispersa dalla polizia: ci sono stati tafferugli. Ieri, poco dopo l’attentato, ci sono stati scontri, e le forze di sicurezza in tenuta anti-sommossa sono intervenute con gli idranti contro i compagni delle vittime – qualcuno dice che sono stati sparati anche colpi in aria – che protestavano gridando «assassini» ai poliziotti presenti.

C’è molto rancore tra il popolo curdo di Turchia, che ieri aveva organizzato la manifestazione, insieme a forze di
sinistra e sindacati, per chiedere lo stop alla guerra tra il governo turco e i curdi del Pkk, e invece s’è ritrovato immerso nel sangue dell’ennesimo dramma. È il terzo grande attentato subito da riunioni pacifiche di curdi, negli ultimi quattro mesi.

Le congetture sono piovute: s’è parlato di “strategia della tensione” ordita dal presidente Recep Tayyp Erdogan, che starebbe colpendo i curdi per inibirne le componenti democratiche e scongiurare alle elezioni di novembre il successo elettorale ottenuto dall’HDP a giugno (quando si votò senza ottenere una maggioranza percorribile per un governo: in quell’occasione si parlo’ di sconfitta dell’AKP, il partito di Erdogan perché, pur restando ampiamente il primo partito, non era riuscito a raggiungere la maggioranza assoluta in Parlamento per chiudere il processo di riforme costituzionali che trasformerebbe il presidente in una specie di rais). Per molti il vero obiettivo dell’attacco di ieri erano proprio i vertici politici del partito curdo.

Quella manifestazione «era il sogno di lavoratori, attivisti per la democrazia, giovani e vecchi, famiglie e bambini di poter svoltare» ha scritto Marta Ottaviani, inviata ad Istanbul della Stampa.

Il premier incaricato Ahmet Davutoglu ha detto che gli indizi fin qui raccolti, fanno pensare a due kamikaze, mentre per l’HDP (e il popolo curdo tutto) il responsabile è “lo stato profondo”, termine che viene usato per identificare le frange più estreme dei servizi segreti, completamente influenzate da Erdogan, che si muovono attraverso i nazionalisti di destra e gruppi jihadisti come l’IS ─ che sarebbero utilizzati per il lavoro sporco, cioè per mettere in pratica quella strategia della tensione di cui si diceva. Va ricordato che queste supposizioni (“lo stato profondo”, “la strategia della tensione”) non hanno la minima prova in appoggio, ma sono notiziabili perché rappresentano praticamente il sentimento unisono che si respira per le strade turche: “è colpa del governo, o per lo meno il governo c’entra”, dicono.

È quasi certo che si sia trattato di un attentato. Nel caso, è molta concreta la probabilità che si possa trattare di opera dell’IS (anche altri gruppi radicali di sinistra in Turchia hanno adottato la modalità degli uomini-bomba, ma che siano loro i colpevoli è molto bassa). Tuttavia ancora non è arrivato una rivendicazione ufficiale: differentemente era successo nei due casi precedenti, quello di Dyarbikir, dove fu colpito un comizio elettorale dell’HDP prima delle elezioni di giugno, e quella di Suruc, dove un kamikaza fece strage di ragazzi curdi diretti in Siria a portare aiuti “ai fratelli” di Kobane. In entrambi i casi a colpire furono curdi sunniti passati a combattere con lo Stato islamico (non una rarirtà). In entrambi i casi, gli stessi sentimenti che facevano urlare ai sopravvissuti di ieri ad Ankara “assassini” ai poliziotti, trovarono spazio in teorie cospirative analoghe: è stato Erdogan che voleva tarpare col terrore il popolo curdo, e se non è stato lui direttamente è stato lui che ha lasciato spazio alle azioni dei terroristi.

L’IS infatti ha come nemico dichiarato sia i curdi, che in Siria soprattutto sono il più concreto dei nemici a terra del Califfato, sia il governo turco, a cui aveva dichiarato guerra dopo la decisione di Ankara di entrare in azione con la Coalizione internazionale “anti-IS” ─ prima l’esecutivo turco aveva a lungo traccheggiato, a causa della presenza di moltissimi infiltrati dello Stato islamico nelle città del paese, condizione che faceva temere rappresaglie.

Va ricordato che con l’IS, così come con altre forze jihadiste, la Turchia ha un rapporto controverso, perché se da un lato il Califfo annuncia vendetta contro “i turchi, amici degli USA”, dall’altro la rivalità turca con la Siria s’è tramutata nel lassismo con cui Erdogan ha lasciato spazio ai traffici di ogni genere diretti a rinforzare le opposizioni a Bashar el Assad, IS compreso.

È legittimo comunque sospettare dello Stato islamico per il gesto di ieri, anche se non si può escludere che il Califfo decida di non annunciare rivendicazioni. Sarebbe una strategia politica con cui lo Stato islamico creerebbe ulteriore destabilizzazione in Turchia, facendo sommare i sospetti sulle colpe di Erdogan, colpendo i curdi, e fomentando (in attesa della rappresaglia del Pkk) la pseudo guerra civile già in atto. Il caos e la violenza politica, sono situazioni che hanno fatto da bacino colturale per lo Stato islamico in più di un’occasione (vedere Siria, Libia e pure Iraq). Tra l’altro la strategia di non rilasciare il rivendico, è stata quella adoperata da al Qaeda in Iraq, prodromo dell’atuale IS, in Iraq tra il 2004 e il 2005.

C’è un altro aspetto che può far pensare con concretezza alla mano dello Stato islamico: è stato colpita la parte del corteo dove sventolavano le bandiere dell’YPG, le Forze di protezione popolare, la milizia armata che difende l’autoproclamato stato del Rojava, il kurdistan siriano. L’YPG è la forza militare che ha cacciato l’IS da Kobane, insieme ai raid della Coalizione: ora gli americani stanno armando alcuni ribelli sunniti arabi che appoggeranno i curdi siriani in un’offensiva lanciata su Raqqa, la capitale siriana dello Stato islamico.

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