Matteo Renzi ha aperto alle primarie a Roma. Forse non poteva fare diversamente, sia per ragioni statutarie, sia -anzitutto – per non infilarsi di nuovo nel tunnel di una sfibrante e stucchevole diatriba ideologica con la sinistra interna del Pd. In tempi non sospetti, e mi scuso per il riferimento personale, ho avuto occasione di esprimere su queste colonne le mie forti perplessità su uno strumento che serve per non decidere a chi deve decidere.
Le primarie, è vero, hanno costituito il tentativo più organico fatto a sinistra per fronteggiare la crisi dei partiti di massa. Ma, prive di regole o con regole alquanto garibaldine, sono via via diventate il brodo di coltura di lotte laceranti tra capi locali e correnti nazionali, per l’affermazione di ambizioni non sempre politicamente legittime e eticamente edificanti.
La verità è che, quando sono state sperimentate, forse non se ne sono stati previsti tutti gli esiti virtuali. Compreso quello – paradossale – che gli elettori, per partecipare e per contare di più, talvolta finiscono con l’essere utilizzati come truppe di assalto contro il nemico da ufficiali senza scrupoli. A mio avviso anche in questa luce vanno letti gli episodi di malaffare, se non di corruzione vera e propria, che hanno gettato un’ombra sull’irreprensibilità del Pd.
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Uno dei pensieri più famosi sul mestiere di giornalista di Gaetano Salvemini, il maestro politico dei fratelli Rosselli, è questo: “Noi non possiamo essere imparziali. Possiamo essere soltanto intellettualmente onesti, cioè renderci conto delle nostre passioni, tenerci in guardia contro di esse e mettere in guardia i nostri lettori contro i pericoli della nostra parzialità. L’imparzialità è un sogno, la probità un dovere“. Ovviamente, sarebbe puerile pretendere da un Marco Travaglio l’adesione alla deontologia professionale professata da Salvemini. Ma la furia giustizialista dei grandi quotidiani italiani è inquietante. Basta l’annuncio dell’apertura di un’inchiesta, un rinvio a giudizio, la richiesta di arresto per un esponente della “casta” (ormai, quasi un’entità metafisica), e subito scatta il “Tutti in galera!” urlato da Catenacci. Forse i più anziani se lo ricordano: era lo straordinario personaggio interpretato da un esilarante Giorgio Bracardi in “Alto gradimento”, la leggendaria trasmissione radiofonica degli anni Settanta nata dall’estro di Renzo Arbore e Gianni Boncompagni. A chi gli obiettava che occorrevano le prove, Catenacci rispondeva: “Ma chettefrega?”.
Oggi la sua risposta interpreta il comune sentire di buona parte dell’opinione pubblica. Non solo quella, per intenderci, manipolata abilmente da Beppe Grillo. Forse anche grandi firme del Corriere della Sera e di Repubblica hanno qualche responsabilità se i principi dello Stato di diritto da un po’ di tempo da noi sono considerati un optional.