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Il Papa, i liberali e la povertà

Papa Francesco ha dato al suo pontificato la missione di stare dalla parte dei poveri, degli svantaggiati, dei più deboli. D’altronde, già la scelta del nome del “poverello di Assisi” mostrava con chiarezza quale fosse per lui l’obiettivo prioritario.

Dal momento dell’elezione Bergoglio ha farcito i suoi discorsi di accenti anticapitalistici, che, seppur presenti nella tradizione cattolica e anche nei testi e nelle parole degli ultimi pontefici, con lui hanno assunto una costanza e un vigore precedentemente meno marcati (anche se bisogna aggiungere che, da buon pragmatico, il papa si è contenuto su questo punto nella sua visita negli Stati Uniti, che del capitalismo restano ancora oggi la patria ideale).

È proprio questa tonalità del pontefice, fatta di vicinanza ai poveri e di diffidenza se non vera e propria ostilità verso il sistema economico capitalistico, uno dei fattori che, non solo in Italia, ha da subito creato un flirt fra lui e la sinistra politica e intellettuale. Quest’ultima infatti ha accentuato ultimamente l’attenzione sul problema delle disuguaglianze e dell’ ingiustizia sociale, che ritiene in aumento generalizzato nel mondo: confortata in questa analisi, empiricamente errata o unilaterale, da molti dei suoi intellettuali più acclamati (si pensi solo al successo di un economista come Thomas Piketty).

Quello della disuguaglianza generata dal “neoliberismo trionfante”, che impoverirebbe i già poveri e arricchirebbe sempre di più un esiguo numero di ricchissimi, è diventato un vero e proprio mantra, ripetuto ad libitum, imposto nel dibattito pubblico con la forza della ripetizione e assimilato dai più senza molta riflessione (per non parlare di ciò che è avvenuto nel mondo accademico o paraccademico ove al fattore “moda” si è aggiunto come al solito un astratto ideologismo).

Molto ci sarebbe da obiettare. Faccio solo due osservazioni. Da una parte, il problema dell’aumento della cosiddetta “forbice”, cioè della distanza che separa i ricchi dai poveri è sicuramente un dato di fatto, negli ultimi decenni, negli Stati Uniti e in alcuni altri Paesi occidentali (non tutti, in verità). Non lo è invece affatto su scala globale, sol che si pensi alla nascita, nello stesso periodo, in vaste zone del mondo, dalla Cina al Brasile, di nuovi e solidi embrioni di borghesia soprattutto urbana. Dall’altra, è sicuramente vero, ma viene costantemente dimenticato, che, senza il capitalismo, con le sue congenite contraddizioni e diseguaglianze (ma è la vita che è contraddittoria e non livellabile!), non ci sarebbero risorse adeguate per sfamare tutti gli uomini presenti sul pianeta Terra: si sarebbe forse tutti più uguali (ma anche questo è da vedere), ma lo si sarebbe nella miseria generale. Qui c’è un elemento indubitabile, che dovrebbe rappresentare (senza trionfalismi ovviamente) un punto di vanto per la nostra civiltà. In maniera del tutto incomprensibile, esso viene invece per lo più dimenticato o addirittura occultato. Mi riferisco al fatto che, negli ultimi decenni, si sono raggiunti successi straordinari nella lotta alla povertà, che è diminuita a livelli percentuali mai prima raggiunti e anzi nemmeno ragionevolmente immaginabili. Circostanza ancora più significativa se si pensa che tutto questo è accaduto proprio nel periodo storico in cui la popolazione mondiale cresceva esponenzialmente in un modo anch’esso mai prima verificatosi.

Nello stesso periodo diminuiva drasticamente, fra l’altro, la mortalità infantile e aumentava in modo altrettanto sensibile la durata media della vita. Il tutto in virtù soprattutto dell’intervento massiccio del capitalismo e della tecnologia nei processi di produzione, resa qualitativa e distribuzione del cibo. Un evento storico, di portata straordinaria, che giustificherebbe addirittura nuovi e ingenui peana al progresso, ammesso e non concesso che ci fosse qualcuno disposto a farli come a fine Ottocento (ma oggi lo “spirito dei tempi” spira decisamente altrove!).

E un evento altresì che smonta in un colpo solo le tante retoriche che si sono costruite ultimamente intorno ai problemi dell’alimentazione e che hanno trovato, ahimè!, spazio spropositato e acritico conformismo anche in una manifestazione come l’Expo milanese (per una rapida introduzione ad una visione critica della tematica del cibo, nonché per i dati precisi e ufficiali che corroborano le affermazioni qui fatte, (rimando al saggio di Luigi Mariani incluso nella raccolta I beni comuni oltre i luoghi comuni, IBL Libri, pp. 141-161).

Fin qui i fatti. Ma c’è anche un discorso teorico da fare, più insidioso, che concerne i liberali. Lo esprimo attraverso una domanda: in che modo si pone, o dovrebbe porsi, il liberalismo rispetto ai temi dell’uguaglianza, della giustizia sociale e della povertà? Ovviamente, non ho né la temerarietà né la presunzione di poter risolvere, nelle poche righe di questa nota, una serie di problemi che da sempre fanno parte della discussione teorica intorno al liberalismo. Vorrei solo dare qualche elemento di comprensione, per procedere poi eventualmente oltre in altra sede.

Prima di tutto, credo che, in un’ottica liberale, sia necessario scindere con nettezza il tema della disuguaglianza da quello della povertà. A costo di semplificare troppo un discorso abbastanza complesso, dico che per i liberali l’uguaglianza sociale, anzi l’uguaglianza in genere, non è affatto un valore. Quindi tutti i tentativi di affiancare il valore dell’uguaglianza a quello della libertà sono da considerarsi fallaci. E lo sono in fondo anche in quei casi in cui, considerati appunto entrambi valori, si ha la preoccupazione di aggiungere che l’uguaglianza è da ritenersi comunque subordinata alla libertà. Benedetto Croce ha spiegato bene questa non assimilabilità definendo l’uguaglianza un concetto empirico, quantitativo, matematico, laddove la libertà è un valore (anzi, per lui, propriamente l’unico valore). In questo modo egli metteva in luce il carattere di astrattezza del concetto di uguaglianza, che al massimo può avere un significato regolativo o orientativo in certe circostanze. Un carattere antivitale, fra l’altro: la vita è per definizione distinzione, differenza, diversità, varietà; un mondo di perfetta uguaglianza sarebbe forse un mondo di pace, ma la pace realizzata sarebbe sicuramente quella della morte.

Il liberale è consapevole che le disuguaglianze sono un po’ come il carburante nei motori: una volta eliminate, con esse si elimina anche la voglia degli individui di migliorarsi e di competere. Si elimina, in poche parole, il progresso umano e, in fin dei conti, la stessa libertà. Come scrive Immanuel Kant nelle Congetture sull’origine della storia (1786), la disuguaglianza, è l’origine di tanti mali ma anche “la copiosa fonte di ogni bene”. Non c’è ragione di temere la disuguaglianza, soprattutto se essa ha corso in un universo mobile e plurale (si può essere svantaggiati oggi e non domani, lo si può essere per certi rispetti e non per altri).

Probabilmente, uno sguardo spassionato sul mondo delle disuguaglianze ci è precluso per sentimenti “umani troppo umani”: siamo per natura abituati a confrontarci con gli altri e facili, quando ci sentiamo in posizione di svantaggio, a cadere nel “risentimento” e nell’ “invidia sociale”. Oltre che di quasi morte, un mondo di diffusa uguaglianza sarebbe poi sicuramente, come ho già detto, un mondo povero, di scarsissime risorse da distribuire fra i viventi: in esso saremmo tutti forse tutti uguali ma lo saremmo nella povertà e non nella prosperità. Il discorso non può però arrestarsi qui: una ulteriore e importante considerazione va fatta.

Se infatti, in una prospettiva liberale, la disuguaglianza fra gli uomini è accettata e dovrebbe essere addirittura promossa e favorita, ciò non significa che non esista poi un “punto critico” oltre il quale essa non può più essere moralmente accettabile. Questo limite da non superare è costituito dall’indigenza, dalla povertà, dalla lotta per la sopravvivenza. La povertà, quella assoluta e non relativa, rende all’uomo difficile o addirittura impossibile vivere e, quindi, anche di essere libero. Ora, anche per un liberale, è compito della società e dello Stato garantire che questo limite non sia mai superato. Ad affermarlo è, fra gli altri, anche Friedrich von Hayek, che pure è stato nel Novecento il critico forse più implacabile dell’idea di giustizia sociale e dello statalismo interventista. “Non esiste ragione alcuna – scrive nella sua opera più nota, La via della schiavitù (1944) – perché, in una società che ha raggiunto livelli generalizzati di benessere come la nostra, il primo tipo di sicurezza non debba essere garantito a tutti senza mettere a repentaglio la libertà di tutti: sto parlando di un minino di cibo, di alloggio e di vestiario sufficienti a preservare la salute. E non esiste neppure alcuna ragione per cui lo Stato non debba contribuire a organizzare un vasto sistema di assicurazioni sociali che si faccia carico dei comuni rischi della vita, che ben pochi sono in grado di affrontare in modo adeguato”.

Hayek era pertanto, in ordine a questo tipo di considerazione, come ribadirà nel secondo volume di Legge, legislazione, libertà (1976), favorevole all’introduzione di un reddito minimo garantito dallo Stato a “chi, per varie ragioni, non può guadagnarsi da vivere in un’economia di mercato, quali malati, vecchi, handicappati fisici e mentali, vedove e orfani, cioè coloro che soffrono condizioni avverse, le quali possono colpire chiunque e contro cui molti non sono in grado di premunirsi da soli, ma che una società che abbia raggiunto un certo livello di benessere può permettersi di aiutare”. Hayek è favorevole a tutte le forme di solidarietà possibili verso poveri e svantaggiati. Ritiene, anzi, che vadano favorite e incentivate le forme di solidarietà realizzate da associazioni volontarie con fini pubblici cooperative, confraternite, società di mutuo soccorso, banche popolari….). Infatti, è sempre preferibile economicamente, e moralmente più sano, che la solidarietà sia espletata quanto più possibile ex ante e non ex post, attraverso la redistribuzione delle risorse (che spesso finisce per creare nuove ingiustizie che proliferano all’ombra di uno Stato sempre più grande).

La solidarietà deve essere un moto dell’animo spontaneo, ha poco valore promuoverla per decreto legge. E lo Stato, che comunque ha forti di controllo e deve garantire a tutti un il reddito minimo, deve intervenire in prima persona solo quando (secondo quello che oggi si chiama “principio di sussidiarietà”) i fini pubblici non sono raggiunti da associazioni volontarie private.


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