La questione “ribelli siriani aiutati dagli Usa” sta tornando di attualità, sia perché sembra che in questo momento parte di quegli aiuti si stanno rivelando utili nel bloccare l’offensiva del regime nelle aree occidentali, sia perché più a est si stanno creando i presupposti di un fronte congiunto che punta verso Raqqa (capitale dell’IS), sia perché è un argomento di dibattito politico, diffuso tra l’opinione pubblica, e alimento base di alcune strampalate teorie di complotti e cospirazioni.
I complotti che non lo sono
Partiamo da qui: gli Stati Uniti hanno aiutato alcuni gruppi di ribelli siriani, ma non lo Stato islamico, nemmeno nelle sue fasi primordiali quando ancora si faceva chiamare Isis e non aveva conquistato la gran parte del territorio che gli ha permesso di autoproclamare il califfato islamico. Gli aiuti sono stati sempre diretti verso fazioni “certificate” (dove il termine racchiude una serie di controlli incrociati, molto scrupolosi, fatti dalle agenzia di intelligence americane sui gruppi destinatari). Queste appartenevano per lo più al Free Syrian Army, un’organizzazione nota con l’acronimo FSA, che è stata tra le prime a mettersi in armi per rispondere alla repressione militare operata dall’esercito del rais Bashar el Assad poco dopo che la protesta esplose nel 2011. Il FSA è l’ala più laica e nazionalista dell’intera opposizione armata, ma questi combattenti storici hanno avuto risultati altalenanti. Prima delle ultime settimane sembravano quasi scomparsi, poi, forse anche grazie ad alcune armi “made in Usa”, hanno ripreso vigore e successo in battaglia. Sottogruppi del FSA nel corso del tempo si sono fatti assorbire in unità più forti, alcuni hanno virato verso gruppi islamisti come Ahrar al Sham o addirittura jihadisti come la Brigata al Nusra, qaedista. In molti casi è stata una deriva prodotta dallo stallo inerziale della guerra: non si vedevano sbocchi possibili, e così hanno scelto di stare con i più forti. In alcuni casi si tratta di una convenienza pragmatica, che va scomoda al FSA, ma che per il momento è l’unica soluzione possibile per pensare di sconfiggere Assad (poi si cacceranno i terroristi, dicono): questo è il caso del Jaysh al Fatah, l’esercito della conquista, in cui il FSA combatte a fianco dei gruppi radicali sopra citati (ed altri minori).
Uno degli argomenti preferiti dai teorici della cospirazione, secondo cui a destabilizzare Assad sarebbero stati gli Stati Uniti per creare caos in Medio Oriente (come se non ce ne fosse già abbastanza), riguarda una foto pubblicata anni fa. Nell’immagine il senatore repubblicano John McCain, capo della Commissione Servizi Armati, conversa con alcuni esponenti dell’opposizione siriana: i complottisti individuano in uno di questi il futuro califfo Abu Bakr al Baghdadi. Non è così: in realtà si trattava di un gruppo di rappresentanza del proprio dell’Esercito Siriano Libero. Se Baghdadi fosse stato presente a quel convivio, avrebbe cercato di uccidere tutti gli altri invitati (McCain compreso, ovviamente), visto che IS e FSA sono nemici giurati e i primi hanno imposto la colpa di apostasia sui secondi “miscredenti, traditori dell’Islam” e dunque destinati solo alla morte.
Il programma del Pentagono
I programmi conosciuti con cui gli Stati Uniti hanno cercato di aiutare i ribelli siriani per detronizzare lo spietato regime di Assad (che si ricorda, secondo i dati riportati dalle organizzazioni umanitarie è il responsabile di circa il 95 per cento delle duecentocinquantamila vittime del conflitto), sono due e hanno tempi diversi.
Uno è stato diretto dal Pentagono e due settimane fa è stato sospeso per manifesto fallimento, dopo un investimento di 500 milioni di dollari. Il disastroso piano era stato annunciato pochi mesi fa, fornendogli abbastanza spinta mediatica, ma è andato male. Prevedeva di formare (tramite training in Turchia e altri paesi alleati) una forza combattente composta da circa cinquemila ribelli, anche questi accuratamente “certificati”, che avrebbero dovuto avere la funzione di boots on the ground per la Coalizione internazionale a guida americana che sta colpendo il Califfato dall’alto. I problemi sono stati diversi, ma essenzialmente di due generi: i ribelli non volevano aderire al programma americano perché richiedeva troppe “certificazioni” e passaggi burocratici, e poi perché non aveva Assad tra gli obiettivi prefissi. La decisione di sospenderlo si porta dietro circostanze al limite del comico: la prima tranche operativa dopo mesi di formazione, era composta soltanto da 54 combattenti, i quali sono stati praticamente spazzati via da al Nusra, qaedista e nemica degli Usa, appena entrati in territorio siriano. Ne erano rimasti «quattro o cinque», per ammissione diretta del generale Lloyd Austin (il capo del Comando Centrale, che si occupa delle operazioni in Siria, tra l’altro). I portavoce di CentCom precisarono poi che in realtà erano «nove» gli uomini sul campo (non è comico?). Un’altra tranche, il cui numero non è noto ma si dice circa settanta, è stato messa a combattere circa tre settimane fa: anche questi hanno consegnato armi e bagagli ad al Nusra e ripudiato Washington per tenere salva la vita appena entrati in Siria.
La nuova strategia al nord
Ora, stoppato questo piano, ce n’è un altro nuovissimo, anche se già da un po’ di tempo viene caldeggiato da svariati vertici militari americani, e si basa sulla vittoriosa esperienza di Kobane (la città curdo-siriana in cui i combattenti locali assistiti dagli aerei americani hanno rotto e vinto un lungo assedio del Califfato). Il modello è sempre quello: domenica sono state paracadutate delle armi leggere e delle munizioni nell’area di Hasakah, al nord della Siria. In questa zona sono presenti i curdi siriani dell’YPG, che saranno i beneficiari indiretti degli aiuti americani. Indiretti perché la milizia curda è alleata del Pkk turco, e dunque considerata un’organizzazione terroristica dalla Turchia, alleata Nato: circostanza che complica l’appoggio, ma nella pragmatica della guerra sono loro i più forti e spendibili nemici del Califfo sul campo. YPG formerà una coalizione con altre forze combattenti, tra cui il neonato Syrian Arab Council (che racchiude alcuni gruppi arabi e sunniti) e l’Assyrians Military Council, una forza combattente che rappresenta l’etnia siriaca (gli assiri) e che si muove nella provincia di Hasakah. Tutti questi gruppi sono nemici dichiarati del governo siriano di Assad, tanto quanto del Califfo, ma saranno usati dalla Coalizione US-led per un’offensiva su Raqqah, la capitale dell’IS in Siria.
Il programma della Cia
L’altro programma militare, è più datato, tanto che si credeva quasi estinto. È, diciamo così, gestito dalla Cia, e operato attraverso l’intelligence di Paesi arabi alleati degli Stati Uniti. Il progetto è semplice: fornire ad alcune fazioni ribelli dei missili anticarro per colmare uno dei principali gap tecnici sul campo (l’altro è costituito dal dominio aereo di Assad, ma per il momento di fornire armi contraeree non se ne parla). Anche in questo caso a beneficiare degli aiuti sono gruppi ribelli appartenenti al FSA. Sul funzionamento del programma non c’è niente di chiaro, perché coperto da segreto di intelligence: sembra che i missili anticarro, i Tow di fabbricazione americana e qualche Fagot russo, siano forniti dai paesi arabi. Principalmente si dice dai sauditi, che hanno un arsenale ricchissimo di questo genere di armi, rinfoltito nel 2013 con l’acquisto di altri 15 mila pezzi. I corsi per l’utilizzo vengono fatti in Qatar. Il passaggio in Siria avviene attraverso il poroso confine turco. Gli Stati Uniti si occuperebbero solo della supervisione, e si sa che c’è un’autorizzazione a procedere dell’Amministrazione Obama.
Sono giorni in cui questo programma si è rivelato più grande e funzionale del previsto. Durante l’offensiva lanciata dal governo nella piana di Hama, e sostenuta dall’aviazione russa e dalle forze di terra iraniane, sono stati i missili anticarro a creare i maggiori problemi. Quella che doveva essere una facile vittoria governativa su un territorio rurale e arido (ma importante dal punto di vista delle comunicazioni e posto a soli 22 chilometri dalla roccaforte del potere elitario alawita e base centrale russa, Latakia) si è arenata. Gruppi di quattro o cinque uomini, nascosti in fossati o su qualche dosso, sparavano e centravano carri armati e blindati dell’esercito come in un poligono di tiro. Fondamentale la presenza di un cameraman, incaricato di riprendere l’intera sequenza, dal puntamento al fuoco del bersaglio, con un compito duplice: fare propaganda e assicurare i fornitori sul corretto utilizzo degli armamenti (è una clausola che serve a garantire che quelle armi non vengono rimesse in circolo sul mercato nero, un’altra di queste è una sorta di “vuoto a rendere” del bossolo del proiettile).
Hillary ieri e oggi
Questo programma Cia è stato proposto ad Obama diversi anni fa dall’allora segretario di Stato Hillary Clinton, in collaborazione con quello che ai tempi era il capo dell’intell centrale David Petraeus e dall’ex segretario di Stato Leon Panetta. Obama aveva accolto la proposta con scetticismo, vocato com’era ai tempi sul disimpegno, ma alla fine l’aveva appoggiata. Al dibattito per le primarie democratiche di martedì notte (ora italiana) la candidate presidente Clinton è tornata sull’argomento Siria, appoggiando un altro argomento lungamente discusso che potrebbe essere d’aiuto ai ribelli: una no fly-zone al confine turco. Aspetto complicato, adesso, anche dalla presenza dei caccia russi che sorvolano sovente quelle aree, ma che è una strategia ragionevole se si intende aiutare i ribelli contro Assad.