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Perché Obama ha cambiato idea sull’Afghanistan

Giovedì il presidente americano Barack Obama ha annunciato la decisione di bloccare il processo di ritiro dall’Afghanistan. Per tutto il 2016 resteranno 9800 militari americani, che diventeranno 5500 tra il 2016 e il 2017.

CHE COSA CAMBIA

Inizialmente il piano prevedeva che dopo il 2016 sarebbero rimaste soltanto un migliaio di unità con compiti di garantire la sicurezza all’ambasciata USA: un piano dal costo di 10 miliardi di dollari, che ora si alza a quasi quindici con la scelta di lasciare un più ampio contingente. I soldati americani avranno sia l’incarico di continuare l’addestramento alle forze di sicurezza del paese, sia quello di intervenire in operazioni speciali in casi di emergenza. Stanzieranno in tre basi nevralgiche: Bagram, a nord di Kabul, a Kandahar, la città sacra dei talebani, e ad oriente, a Jalalabad.

GLI OBIETTIVI DELLA CASA BIANCA

La decisione di mantenere attivo il contingente si lega ufficialmente ad una necessità di fatto: il sistema di sicurezza afghana, che sta portando avanti al fianco degli americani, da 14 anni, la guerra ai talebani (e ad al Qaeda che in Afghanistan ha trovato riparo presso i taliban), non è ancora pronto per lavorare in indipendenza: «Molto fragile» l’ha definito Obama in conferenza stampa. La prova: alla fine di settembre i Taliban hanno conquistato la città di Kunduz, al nord, non prettamente una loro zona di attività. Per diversi analisti s’è trattato addirittura della più grande vittoria ottenuta dai ribelli islamisti dall’inizio del conflitto. La città è poi stata liberata dopo pochi giorni, ma soltanto grazie all’intervento delle forze speciali americane e del loro supporto aereo (pagato a caro prezzo: si ricorderà che in quell’occasione finì per errore sotto le bombe dei caccia USA l’ospedale locale di Medici Senza Frontiere, e ci furono vittime civili).

LA RICOSTRUZIONE DEL WASHINGTON POST

Dietro alla decisione, come ha scritto il Washington Post, potrebbe esserci anche la maggior disponibilità dell’attuale presidente Ashraf Ghani (e il suo “Ceo” Abdullah Abdullah), più aperto rispetto al predecessore Hamid Karzai alla permanenza di truppe americane sul proprio territorio. Possibile, inoltre, che a pesare sia stata anche la difficile situazione del paese, che si sta rimettendo in piedi dopo le ultime travagliate elezioni, mentre i Talebani vivono una delicata e pericolosa fase di successione e lotte di potere (dopo l’ufficializzazione della morte della guida storica Mullah Omar), destabilizzati anche dall’attecchimento delle istanze dello Stato islamico su alcune fazioni interne ai ribelli. I talebani ripudiano il Califfo, perché vedono nel Mullah Omar l’Amīr al-Muʾminīn, il comandante dei credenti, ma in diversi stanno da tempo pendendo verso la narrativa che esce dal territorio siro-iracheno e cominciano a sposare la linea baghdadista (linea che è alla base di alcuni scontri interni al gruppo). Proprio per questo i ribelli jihadisti afghani sono in cerca di vittorie e conquiste, che avrebbero lo scopo di rafforzare la leadership e la morale e ricompattare l’organizzazione. Dunque, serve sicurezza nel Paese.

LE RAGIONI OBAMIANE

Il grande argomento politico dietro alla scelta di Obama è legato all’inversione di policy adottata dal presidente: sono passati sette anni dalla sua candidatura alla Casa Bianca, quando in campagna elettore annunciava la volontà di ritirare gli Stati Uniti da tutti i fronti di guerra aperti. Punto programmatico che rappresenta uno degli aspetti che ha portato gli elettori verso di lui. Ora arriva la scelta di rimanere in Afghanistan: una smentita definitiva ad una delle sue più forti promesse elettorali, anche se lui stesso ha cercato di minimizzare definendola una «scelta vitale» e aggiungendo che in fondo non si tratta altro che di «rettifiche» «modeste» («ma significative» ha aggiunto poi) al piano. Solo che il piano prevedeva il completo ritiro entro la fine del suo mandato, cioè il 2016 (anche se ufficialmente lascerà a gennaio 2017), mentre invece a quella data resteranno diverse migliaia di truppe americana impegnate in una delle «guerre infinite» che lui ha di nuovo ribadito di rifiutare.

CHE COSA DICONO I CANDIDATI ALLA CASA BIANCA

Obama lascerà di fatto in mano al suo successore l’eventuale scelta sul ritiro definitivo. Jeb Bush uno dei tanti candidati repubblicani alla Casa Bianca s’è detto favorevole alla permanenza, anche se i soldati sarebbero pochi per lui. Marco Rubio (tra i contender repubblicani il più preparato in politica estera) ha colto un punto sottile, invece, dicendosi d’accordo sulla scelta, ma contrario alla decisione di Obama di annunciare il prelievo successivo, visto che in quel momento lui non sarà più il Commander in Chief. La principale candidata democratica Hillary Clinton non ha ancora commentato, ma si ricorderà che sul suo libro-memoriale “Hard choiches” si diceva preoccupata dalla volontà di Obama di ritirare le truppe.

IL SENSO ELETTORALE

Secondo Politico la scelta di Obama potrebbe avere anche un senso elettorale: uno split per indebolire la posizione forte dei repubblicani sull’argomento “impegno militare”. La decisione del ritiro è uno dei temi di critica ad Obama preferiti dai rep, usato spesso in questi ultimi mesi cavalcando la situazione in Iraq.

EVITARE L’ERRORE IRACHENO

L’Iraq, appunto. Daniele Raineri ha intervistato sul Foglio l’ex analista dell’intelligence americana di stanza a Baghdad Derek Harvey. Il pezzo del Foglio spiega il cambio di rotta di Obama in Afghanistan: l’intervista parla di Iraq, però. Hervey dice che siamo nei guai perché «non capiamo lo scontro in cui siamo». L’analista, ormai in congedo, a maggio 2015 è stato richiamato dal Senato in audizione per avere una consulenza sul come affrontare l’IS, e ha spiegato che lo Stato islamico non è altro che un flash-back alla Baghdad del 2004: è la stessa guerra, dice. Il tutto è traslabile ai talebani (o, perché no, ai tentacoli dello Stato islamico in Afghanistan).

L’ANALISI DEL NEW YORK TIMES

Anche il New York Times ha scritto che dietro alla scelta di Obama sull’Af, c’è la «lezione dell’Iraq»: le truppe americane hanno lasciato il paese nel 2011, secondo il piano elettorale di Obama; questo ha aperto lo spazio, negli anni a seguire alla forza combattente sunnita che covava vendetta anche davanti ai soprusi del governo sciita filo-americano. Che il nome sia al Qaeda in Iraq, Stato islamico d’Iraq, Isis, conta meno: lo Stato islamico non ha mai fermato la sua operatività, non ha mai cambiato la sua linea (ora escono delle informazioni che rivelano che la leadership dell’attuale gruppo è rimasta la stessa che sosteneva il predecessore di Baghdadi, Abu Omar, morte nel 2010 colpito da un missile americano). Piuttosto, è stata l’America e l’Occidente a distrarsi e sbagliare strategia. Tenere tutto al livello minimo di impegno, per Harvey, è il problema peggiore che si riscontra nella strategia militare dell’attuale leader della Casa Bianca.

LE CRITICHE ALLA DECISIONE DI OBAMA

È per questo che l’America non riesce a fare la differenza in Iraq: Obama agita lo spettro di nuovi invii di truppe e prosegue la sua dottrina del disimpegno. «Sta giusto facendo abbastanza perché sembri che stia facendo qualcosa», dice Harvey, solo che adesso inviare nuovamente soldati di terra sul suolo iracheno sarebbe politicamente impossibile, una marcia indietro che scalfirebbe completamente la legacy del presidente. L’Afghanistan invece ancora è “salvabile” sotto questo punto di vista: e allora le truppe restano (anche se le sorti di Kabul sono scese nel livello di interesse dell’opinione pubblica americana). Mentre c’è già chi commenta che il numero è talmente basso che equivale a meno del (solito) minimo sforzo: l’opinionista conservatore Marc Thiessen (tra gli spin di George W. Bush) ha detto a Politico: «Abbiamo già 10 mila soldati laggiù e non hanno funzionato [a Kunduz]», la risposta è lasciarne metà sperando che funzioni meglio, ha aggiunto.

COSA FARANNO GLI ALLEATI

La decisione di Washington sull’Afghanistan avrà certamente ripercussioni sulle pianificazioni degli alleati americani: il portavoce del dipartimento della Difesa Peter Cook ha anticipato che «anche gli alleati offriranno un significativo contributo di forze», ma non ha voluto specificare dettagli. Per il momento nessuno dei governi che hanno partecipato alla missione afghana al fianco degli Stati Uniti ha comunicato posizioni importanti sulla decisione di Obama. Ci sono oltre seimila uomini “non-Usa” in Afghanistan, come parte della missione Nato “Resolute support”.



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