Uno dei dilemmi delle campagne elettorali negli Stati Uniti è se contano più i favori nei sondaggi o i soldi in cassa. E’ un po’ la storia dell’uovo e della gallina: se non sei su nei sondaggi, non attiri finanziamenti; e se non attiri finanziamenti, non hai modo di andare su nei sondaggi. Però, se non c’è dubbio che alla fine si contano i voti, e non i soldi spesi o che restano in cassa, è altrettanto vero che ci sono fasi della campagna in cui attirare i donatori pesa forse più che attirare gli elettori.
E’ quello che sta avvenendo a un anno abbondante dal voto dell’8 novembre 2016 e che continuerà ad avvenire almeno fin quando, con le primarie nello Iowa il 1° febbraio e nel New Hampshire il 9, si cominceranno a contare i voti e i delegati alle conventions.
I dati appena resi pubblici dalla Federal Electoral Commission (Fec) confermano l’impressione che Wall Street è sempre più preoccupata dall’eventualità che Donald Trump ottenga la nomination: l’avanzata del magnate del mattone, inizialmente considerata un fuoco di paglia, è un incendio, che la finanza americana cerca di spegnere foraggiando i suoi rivali.
“Ho avuto quattro pranzi con alcuni investitori ad agosto – ha raccontato tempo fa a Politico il vice-presidente di Blackstone Byron Wien -. Al primo, tutti pensavano che Trump sarebbe crollato, ma entro l’ultimo hanno iniziato a prendere la situazione sul serio”, perché la campagna dello showman “tocca frustrazioni molto reali” e lui “è un manipolatore dei media”. Con Trump, succede quello che in Italia succedeva con la Dc e più tardi con Berlusconi: nessuno diceva di votarli e nessuno conosceva qualcuno che li votasse, ma loro vincevano le elezioni.
A Wall Street – riferiva un’altra fonte, sempre a Politico – c’è “un misto di shock e smarrimento”: la sicurezza che alla fine la spunterà un candidato dell’establishment vacilla. E Trump non fa nulla per rasserenare la finanza, che sa nemica. A ‘Face the Nation’ sulla Cbs, s’impegna ad appesantire le tasse ai “ragazzi degli hedge funds”, che sono i ‘cocchi’ dei suoi rivali: con le loro donazioni, “loro hanno il pieno controllo di Hillary, di Jeb e di altri candidati … La mia campagna elettorale è autofinanziata: le uniche persone che hanno il controllo su di me sono i cittadini americani”.
Ma un esperto di presidenziali suggerisce: “Quelli che sono preparati per correre una maratona beneficeranno del ritiro di Trump al 35o chilometro”. Tradotto in termini di campagna, vuol dire che fino ad aprile Donald sarà in lizza; e che, poi, magari, potrebbe decidere di correre da solo. Come Ross Perot. Che non vinse, ma fece perdere George Bush.
La situazione si riflette bene nei dati trasmessi da tutti i candidati alla Fec entro il 15 ottobre: ne emerge proprio che i grandi donatori continuano a puntare sui candidati ‘istituzionali’ ed a sperare in un loro successo.
In campo democratico, Hillary Clinton e il suo rivale Bernie Sanders, di cui si direbbe che nessuno potrebbe scommettere un penny sulla sua elezione a presidente Usa, sono davanti a tutti gli aspiranti alla nomination repubblicana, nella classifica delle donazioni avute nel trimestre luglio/settembre. Una ragione -aritmetica, non politica- c’é: i democratici in lizza sono, di fatto, solo loro due, mentre i repubblicani sono ancora 15 e le donazioni sono, quindi, molto più distribuite.
Hillary è, in assoluto, quella che incassa di più, ma pure quella che spende di più, intorno ai 30 milioni di dollari in entrata e oltre i 26 in uscita, mentre l’altro democratico, Sanders, incassa un po’ meno e spende molto meno. Un’eventuale discesa in campo del vice-presidente Joe Biden ri-orienterebbe i flussi di denaro.
In campo repubblicano, Trump – lo abbiamo già visto – sta spendendo del suo e non sollecita fondi: la sua campagna è quasi in pareggio, avendo raccolto 5,8 milioni di dollari e avendone spesi 5,6 (però nella sua dichiarazione non figurano spese per lo staff, che di solito sono la voce più grossa). Nel terzo trimestre 2015, Trump ha ricevuto quasi 4 milioni: donazioni non sollecitate da circa 75 mila persone.
Lo showman non ha bisogno di pagarsi pubblicità perché radio e tv gliene fanno ampiamente, dando grande rilievo alle sue sortite, che sono veri e propri spettacoli. Per cui, le voci di spesa maggiori sono i cappelli e le magliette con il suo logo che regala ai suoi comizi (825 mila dollari) e i viaggi co il suo jet privato (725 mila dollari). Difficile però dire, da questo quadro se la campagna di Trump stia davvero ‘stallando’, come molti sostengono, o se abbia ancora margini di crescita.
I dati della raccolta dei fondi riportano decisamente in primo piano Jeb Bush. L’ex governatore della Florida, figlio e fratello rispettivamente del 41° e 43° presidente degli Stati Uniti, va sempre male nei sondaggi, ma di soldi continua a metterne un sacco in cassa.
Nell’estate, Jeb era un po’ sparito dai radar dell’informazione, offuscato dalle mediocri prestazioni nei dibattiti televisivi e dagli alfieri dell’anti-politica repubblicani, Trump, Ben Carson il nero e Carly Fiorina la donna. I dati ora pubblicati lo confermano come uno degli aspiranti alla nomination più credibile, agli occhi dei domatori.
Bush ha raccolto 13,4 milioni di dollari nel terzo trimestre: fra i candidati repubblicani, è secondo solo a Carson (l’ex neurochirurgo iper-conservatore è arrivato a 20 milioni). Il senatore del Texas Ted Cruz ha raccolto 12,2 milioni, l’ex ceo della Hp, la Fiorina, 6,8 milioni; il senatore della Florida Marco Rubio 6 milioni, il senatore del Kentucky Rand Paul 2,5.
Un’altra prospettiva è quella dei soldi in tasca ai candidati, che misura il rapporto tra quanto raccolgono e quanto spendono. Bush, che ha una campagna molto dispendiosa, e che partì in giugno con una dote di 114 milioni, ha 10,3 milioni, meno di Rubio (11), Carson (11,5), la Fiorina (13,5).
Una terza prospettiva è quella dei sondaggi. Qui Trump è stabile oltre il 20%, Carson sopra il 19%, Rubio intorno al 10%, la Fiorina, lanciata dal dibattito di settembre, all’8,3%, Jeb al 7,3%, gli altri più giù.
Ma i dati del terzo trimestre significano che il partito e i suoi sostenitori finanziari tradizionali non si riconoscono di certo nel ‘trio dell’anti-politica’, anzi lo temono; e continuano ad aggrapparsi a Bush. Per arrivare alla Casa Bianca, o almeno per evitare l’8 novembre 2016 una sconfitta rovinosa. (fonti varie – gp)