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Ucraina, perché la Russia preoccupa la Nato

A distanza di venticinque anni, è sempre Mosca a impensierire la Nato, che nel frattempo ha sprigionato la sua forza attrattiva anche oltre l’ex Cortina di ferro. E che oggi, con Trident Juncture 2015, l’esercitazione che si svolge fino al 6 novembre tra Italia, Spagna e Portogallo, lancia un segnale ai suoi stessi partner e all’Orso russo. “Circa 35 mila soldati, oltre 140 aerei e 60 navi provenienti da 30 Paesi” partecipano con convinzione a queste manovre, ha spiegato ieri il vice segretario generale Alexander Vershbow, parlando alla sede madrilena della Fundación Botín.

Come una volta, è dal Paese guidato da Vladimir Putin che spirano i venti di guerra che giungono alle porte dell’Europa. Ma, rispetto al passato, oggi sferzano la stabilità di Kiev e la tranquillità dei membri baltici, secondo l’Alleanza atlantica. Per adattarsi a queste sfide e fornire una difesa collettiva efficace, anche in virtù dell’articolo 5 del Trattato atlantico (la cosiddetta “clausola d’impegno” reciproco in caso d’attacco), la Nato ha approvato nel settembre del 2014 in Galles il Readiness action plan (Rap). Come suggerisce il nome, si tratta di un piano di intervento rapido, che avrà la sua punta di diamante nella Very High Readiness Joint Task Force (Vjtf), una forza congiunta di 5 mila uomini che sarà pienamente operativa nel 2016.

“Ci troviamo di fronte a una Russia assertiva”, ha spiegato l’ambasciatore americano a un evento del Real Instituto Elcano, organizzato in collaborazione con l’Istituto Affari Internazionali. Tuttavia, ha evidenziato, “la Russia di oggi non è l’Urss e questa non è una nuova Guerra fredda”. A seguito della globalizzazione, “i Paesi sono interdipendenti”, soprattutto sul piano economico. Il mondo è cambiato e con esso la Nato, che vede nel futuro in Mosca un partner con cui cooperare, se essa lo vorrà. La Russia è stata invitata a partecipare come osservatore alle esercitazioni di Trident Juncture. “Non c’è contraddizione. È interesse dell’Alleanza”, ha rimarcato Vershbow, che la Russia sia dialogante, stabile e integrata. Nato e Russia hanno bisogno di avere relazioni più trasparenti e prevedibili per evitare fraintendimenti in cui forze diverse operano stessa zona”. Ma, “nonostante i nostri tentativi, per il momento così non è”. Il mondo ha preso consapevolezza di questo pericolo dopo l’annessione della Crimea e il sostegno di armi e uomini offerto ai separatisti nella parte orientale dell’Ucraina. Questi episodi sono stati “il campanello d’allarme” ma, ha sottolineato Vershbow, “oggi la Russia ha anche forze ostili che controllano il territorio in Georgia e in Moldavia”. Fatti che, per essere affrontati, necessiterebbero di una strategia globale, ha scritto sul New York Times l’ex ambasciatore statunitense a Mosca, Michael McFaul.

Il moltiplicarsi dei focolai alimentati dal Cremlino preoccupa l’Occidente. E, a quelli già noti, se n’è sommato da poco un altro. “Ora la Russia”, ha ricordato il numero due dell’Alleanza, “ha rivolto la sua attenzione alla Siria. Ma piuttosto che combattere l’Isis al fianco della coalizione guidata dagli Usa, sta concentrando la sua potenza di fuoco per puntellare la posizione del suo cliente, il regime del presidente Bashar al-Assad”.

Il tema della Russia terrà banco anche nel prossimo vertice della Nato, in programma a Varsavia a luglio. All’ordine del giorno ci saranno le implicazioni a lungo termine della crisi attuale nelle relazioni con la Russia e per il futuro dell’Alleanza. Una sorta di presa d’atto del deterioramento dei rapporti con Mosca, anche da parte di quei governi che si sono finora mostrati timidi nel condannare l’atteggiamento russo (come Roma).

Al vecchio “nemico”, però, se ne sono aggiunti altri. Nuove ombre fanno capolino all’orizzonte. Lo Stato Islamico, ad esempio, che imperversa ormai in quello che nei quartieri generali di Bruxelles viene definito “un nuovo arco di crisi”, che abbraccia l’Afghanistan, passa per l’Iraq e la Siria e giunge fino alla vicinissima Libia. Scenari diversi, ma tra i quali diversi osservatori registrano collegamenti e analogie.

Naturale, dunque, ha aggiunto Vershbow, che la Nato provi a correre ai ripari anche nel cosiddetto Fianco Sud, il confine meridionale dell’Alleanza, senz’altro il più esposto al rischio di infiltrazioni terroristiche, alle ripercussioni degli tsunami politici nelle nazioni del nord Africa e all’ondata di rifugiati diretti verso il Vecchio continente.

Nonostante i timori crescenti per l’aggressività del Cremlino, ha detto ieri il numero due della Nato, dal Medio Oriente al Mediterraneo “assistiamo a violenza e instabilità”. Non si tratta “di una, ma di molte minacce, con molte cause diverse, dalle insurrezioni” al vero e proprio collasso di Stati”, che “ha portato indicibili sofferenze umane ed enorme sconvolgimento per i loro vicini”, come l’Italia.

Il riferimento è infatti anche all’ex regno di Muammar Gheddafi, dove la Nato intervenne nel 2011. “Allora sbagliammo a non far seguire fasi di peacekeeping e Defence Capacity Building a quella militare. Questo errore non deve essere ripetuto”, se e quando le Nazioni Unite riusciranno a convincere Tobruk e Tripoli a firmare l’agognata intesa per un governo d’accordo nazionale.

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