Skip to main content

Consigli non richiesti al commissario Tronca

A prefe’ ma che stai a di’?

Se fossi un romano de’ Roma reagirei così alle prime dichiarazioni del neo commissario straordinario Francesco Paolo Tronca e al viatico ricevuto da Raffaele Cantone che parla ormai con piglio da Robespierre, l’Incorruttibile.

Facciamo come Milano? Ma de che? La “capitale morale” fa parte della retorichetta da giornale di provincia e non basta certo l’Expo a far recuperare il primato perduto. Non solo perché passata la festa gabbato lo santo (scandali e scandaletti che hanno segnato gli esordi dell’avventura cibaria torneranno a galla, è sicuro come le tasse), ma perché la primazia milanese è stata per lungo tempo economica, culturale, politica persino, nel bene e nel male (tutte le rotture politiche sono cominciate lì, da Mussolini a Berlusconi passando per Craxi).

Bertolt Brecht avrebbe detto, con graffiante cinismo, “prima lo stomaco poi la morale”. Per spiegarlo meglio s’inventò, nell’Anima buona del Sezuan, il fratello cattivo che grazie al lungo pelo sullo stomaco consentiva alla sorella casta e pura di vivere bene facendo del bene. Alla fine si scopre che sorella e fratello sono la stessa persona.

A Roma, invece, il fratello cattivo viene chiamato da fuori, un altro podestà straniero anche se meno improbabile del marziano genovese che non se ne voleva andare, attaccato alla poltrona come la patella allo scoglio. Farà pulizia, certo (almeno lo si spera), ma finirà per mettere la polvere negli angoletti in attesa che arrivi un’Ama (l’azienda della monnezza, per i non romani) che non arriverà mai, perché i gangli fondamentali attorno ai quali ruota la città sono incapaci di funzionare.

Il problema di Roma, come dimostra la stessa vicenda di “mafia capitale”, non è che la società capitolina è più corrotta di quella milanese né che la politica funziona in modo diverso (si tratta sempre di scambio tra consensi e favori); no, il vero problema è che Roma ha perduto qualsiasi legame sistemico, per questo si è spappolata.

Comanda la terra di mezzo perché in alto e in basso non c’è più niente. Non c’è una banca, un’élite economica, una classe politica con alle spalle una rete di solidi legami: si pensi all’andreottismo e al Vaticano o al partito comunista e a quell’anima popolare, pasoliniana, spesso persino troppo esaltata. Anche i ponti sul Tevere sono crollati: sull’altra sponda i pontefici stranieri hanno reciso i legami abbandonando via via la città. Oggi Roma non è la sede universale del papato, ma il suo bed and breakfast.

I laici volterrani saranno contenti, ma non sarebbe male se rileggessero “Roma” di Emile Zola. Per quanto spesso cada nel polpettone, nel romanzo ci sono squarci illuminanti, come quando lo scrittore racconta la metamorfosi della nuova capitale, finita nelle mani di speculatori senza scrupoli che provocarono la gravissima crisi degli anni ’90 dell’800 con il collasso del Banca Romana. Ebbene, ad un certo punto Zola mette in scena un operaio ex garibaldino, socialista e disoccupato, costretto a elemosinare qualche centesimo dalla carità di una principessina dell’aristocrazia nera, che rimpiange il tempo del papa re. Se non siamo a questo punto, poco ci manca.

Anche Milano, sia chiaro, ha perso il suo legame sistemico, è collassato con Tangentopoli e la città non lo ha più ritrovato. Solo che non smette di cercarlo perché il cambiamento è nella sua natura socio-culturale, così come la permanenza e la conservazione stano attaccate come sanguisughe alla città eterna.

Riesumare il modello del “generone” consociativo non è possibile e non è nemmeno desiderabile. La Roma produttiva sulla quale ad un certo punto aveva puntato Walter Veltroni è rimasta un’illusione.

Se fossi un romano de’ Roma, quindi, non saprei dove cominciare. Una sola cosa si può dire: bisogna aprire una riflessione pubblica su come ricostruire; una ricostruzione possibile, realistica non utopistica, ma Roma deve ritrovare dentro di sé le proprie risorse, anche quelle politiche. Ogni intervento esterno può essere soltanto maieutico. Altrimenti è destinato a fallire.

Stefano Cingolani


×

Iscriviti alla newsletter