Mentre il prefetto Francesco Paolo Tronca s’insedia, come commissario straordinario, al comando dell’amministrazione capitolina ripromettendosi incontri solo “istituzionali”, come ha precisato partendo da Milano, l’ex sindaco Ignazio Marino ha ripreso a sfogliare e aggiornare le sue agende di vario colore. Lo scopo è di ricavarne il più volte minacciato libro esplosivo sulle trappole e interferenze dei partiti, a cominciare dal suo, che non gli avrebbero permesso di governare a dovere la Capitale.
Il libro potrebbe essere il canovaccio della sua campagna elettorale di primavera, se Marino riuscirà a parteciparvi per una rivincita che sembra oggettivamente molto improbabile. Una missione diciamo pure impossibile, pur con tutti i capricci e le sorprese di una politica così scombinata com’è diventata quella italiana, e romana in particolare.
Più proficuamente e realisticamente, profittando anche della confusione che regna nel Pd, ha cominciato a muovere le sue pedine sulla scacchiera elettorale Alfio Marchini. Che con i suoi 50 anni, per quanto ben portati, Amintore Fanfani avrebbe chiamato “giovane anzianotto”, come fece con i colleghi di partito che a quell’età, o poco meno, affollavano i piani alti e bassi del movimento giovanile della Dc, decidendo perciò di scioglierlo o commissariarlo, non ricordo più bene.
Alfio Marchini è un uomo anche politicamente fortunato. Silvio Berlusconi lo aveva appena investito, in una terrazza d’albergo, della sua fiducia e del suo sostegno come candidato di un rinnovato centrodestra a sindaco di Roma che la giovane Giorgia Meloni, aspirante leader di una destra che più destra non potrebbe, avvolta nella bandiera dei Fratelli d’Italia, versione aggiornata di ciò che furono il Movimento Sociale e Alleanza Nazionale, gli ha gridato un no grande come una casa. Anzi, come uno dei tanti palazzi che genitori e zii di Alfio costruivano di buona lena nella Capitale, compreso il famoso Bottegone regalato al Pci perché ne facesse la sua sede nazionale.
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Aiutato provvidenzialmente dalla sparata della Meloni, che pure deve a Berlusconi ancor più che a Gianfranco Fini la notorietà guadagnatasi prima come vice presidente della Camera e poi come ministro del centro destra, l’astuto Marchini si è affrettato a togliersi ogni etichetta di dosso annunciando di volersi candidare con una propria lista e un proprio simbolo: né di destra né di sinistra, che a Roma ormai valgono ancor meno che a livello nazionale.
Ciò potrebbe rendere Marchini più appetibile ad una bella fascia di elettori, e indurre forse anche il Pd a considerare la possibilità di sostenerlo in qualche modo, visto peraltro che si è appena avvalso di lui per raccogliere le dimissioni dei consiglieri uscenti necessarie alla decadenza dell’assemblea capitolina eletta nel 2013, e di quel poco che rimaneva ormai della giunta Marino.
Sarà intanto contenta la sempre simpatica Simona Marchini, che Alfio chiama zia, fattasi recentemente sentire per avvertire il “nipote” che, diversamente dal 2013, non avrebbe potuto votarlo come il candidato della destra, essendo rimasta lei una donna irriducibilmente di sinistra.
Recuperato il voto della zia, rimane ora al nipote il compito di recuperare davvero quello del nonno. Che, per quanto morto, egli ha di recente immaginato, in una lunga intervista all’Espresso, di poter riportare metaforicamente alle urne con lui, meritevole di riscattare la sinistra degli errori e dei ritardi che l’avevano rovinata.
Per i grillini sarebbe obiettivamente più difficile mobilitare i romani con le loro solite parolacce e vaffa contro ogni soluzione politica dovesse profilarsi della crisi capitolina, anche se Marino, con il suo slogan elettorale di due anni fa “Non è politica”, ha dato un bel colpo anche all’antipolitica. Egli ha infatti dimostrato che, pur con tutti i suoi errori, è sempre preferibile la politica.
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Dobbiamo alle consuete riflessioni domenicali di Eugenio Scalfari, sulla sua Repubblica, l’onesta confessione della ragione assai modesta e impropria per cui due anni e mezzo fa votò anche lui per l’elezione di Marino a sindaco di Roma, pur avendogli preferito nelle primarie l’attuale ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Lo votò, pur non conoscendolo, per l’impegno profuso, sia pure inutilmente, come presidente della Commissione Sanità del Senato per una legge cosiddetta di fine vita, cioè per un sostanziale accesso all’eutanasia, essendo egli convinto che sia meglio procurarsi o lasciarsi procurare una morte indolore ad un prolungamento dolorosissimo e inutile della vita.
Non poteva immaginare, il povero Scalfari, con il quale possiamo ben essere solidali nella delusione, che Marino sarebbe riuscito a praticare l’eutanasia solo all’amministrazione capitolina.
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Sul fronte giudiziario, non trovo parole per commentare la vicenda dell’Unicredit e di Fabrizio Palenzona, investiti di dure accuse di associazione a delinquere, e puzza di mafia, con sequestri spettacolari di documenti dissequestrati poi dal tribunale del riesame. Le cui decisioni e valutazioni smentiscono pertanto il pubblico ministero che ha terremotato mediaticamente una delle principali banche europee.
La vicenda segue di poco quella della Banca d’Italia, il cui governatore Ignazio Visco è finito con altri dirigenti sotto indagine, con relativo clamore internazionale, per un affare bancario umbro su cui poi la stessa magistratura ha dovuto precisare che è tutto da chiarire. E’ la solita storia dell’avviso giudiziario concepito come garanzia ma gestito come una clava.