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Ecco 3 casi clamorosi dell’urbanistica stile Marino

Di Francesco Karrer e Sergio Pasanisi

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

È certo presto per dare un giudizio sulle realizzazioni di “Marino urbanista”. Ma forse non lo è per esprimere un giudizio su come e quanto programmato e capire “chi ha deciso la città”, in questi due anni. Perché se è ormai nella fisiologia dell’urbanistica contemporanea che a decidere non sia solo il decisore pubblico, il nuovo approccio della giunta Marino appare indubbiamente un’inversione del tradizionale processo decisionale. Quello del pubblico che decide una visione generale paritetica, negoziando tra le “pressioni” dei diversi interessi e le proteste (spesso a prescindere) dei cittadini.

E se “la città è uno stato d’animo”, come si teorizza nella relazione “Roma prossima – Due anni di scelte urbanistiche – Come cambia Roma”, pubblicata ad agosto dall’Assessorato alla Trasformazione Urbana, ne consegue che le decisioni della Roma di Marino sembrano il frutto di una emotività estemporanea che potremmo definire “urbanistica emozionale”.

L’emotività è l’ispiratrice fin dalle prime delibere post elezioni. Dalla “democratica e antifascista” ma un po’ antistorica, ipotesi di demolizione di via dei Fori Imperiali, sospesa dall’esito del lavoro di una speciale Commissione mista MiBACT e Roma Capitale, e retrocessa, con le delibere dell’ultima giunta, alla non semplice pedonalizzazione dei giorni festivi (con grave danno per il trasporto pubblico). All’abiura nei confronti di Alemanno, con la cancellazione degli “Ambiti di riserva” che, per quanto criticabili nella logica del “consumo di suolo zero”, erano comunque previsti dal Piano Veltroni del 2008. Poi la scelta, un po’ in sordina, di rinnegare i precedenti modelli dell’urbanistica romana, sia quelli più tradizionali, incrementali verso l’agro romano (dal Piano Piccinato al Piano Veltroni), che quelli più innovativi (il planning by doing dell’amministrazione Rutelli).

Con il conseguente disinteresse delle loro eredità: dalla verifica dell’efficacia giuridica del PRG Veltroni alla luce dell’obbligo di adozione del Piano Urbanistico Generale Comunale ai sensi della vigente legge regionale sul governo del territorio, all’aggiornamento della cartografia del PRG approvato nel 2008 (avviata con le delibere dell’ultima giunta), ed elaborazione dello strumento informatico (SIT) che permetterebbe una trasparente gestione on line del PRG. Ma anche verso i grandi progetti pubblici ereditati da Rutelli e Veltroni che sembrano messi su un binario morto: dal secondo Piano di edilizia popolare, alla realizzazione del piazzale della stazione Tiburtina e relativa demolizione della tangenziale, previsti nell’accordo con FS che risale al 2000, ben quindici anni fa! Tuttavia, per rassicurarci sul principio di continuità amministrativa, per tali attività ogni anno viene rinnovato un incarico, fin’ora senza alcun risultato, alla società in house Risorse per Roma. Altra questione controversa e completamente accantonata è quella dei vincoli urbanistici per le aree a servizi che, in base alla giurisprudenza consolidata, durano cinque anni mentre in Campidoglio li ritengono, ad libitum, “eterni”, in virtù della possibilità offerta dal PRG di compensare il privato con diritti edificatori da esercitare in altre aree.

Così l’amministrazione Marino si è concentrata su nuove e, in quanto tali, “belle” iniziative proposte da soggetti privati. Come il trasferimento di Telecom Italia negli “scheletri” dell’ex Ministero delle Finanze all’Eur e il recupero dell’Istituto Geologico, entrambi di proprietà di Cassa Depositi e Prestiti, attivate con semplici procedure edilizie, cioè senza necessità di atti politici, ma ritenute simboliche della città che si trasforma. Ma sono le tre più importanti operazioni in variante al PRG, che dimostrano la scelta di un’urbanistica incrementale più per singole operazioni che per piani (tranne un generale onnipresente inno a sostenibilità, partecipazione e resilienza), e un pilotage, come lo chiamano i francesi, a fasi alterne.

E quindi chi ha deciso la città nelle tre delibere più rilevanti, Stadio della Società Roma Calcio, ex Stabilimenti militari di via Guido Reni, ex Fiera sulla Cristoforo Colombo?

Per lo stadio nel quartiere periferico di Tor di Valle, l’amministrazione si è limitata a negoziare (imporre?) con il proponente privato la realizzazione di ingenti opere infrastrutturali (del valore di oltre 300 milioni) considerate utili per quella parte di città, ma mai programmate prima d’oggi. E al fine della loro realizzazione ha concesso al privato diritti edificatori aggiuntivi (i grattacieli progettati da Libenskind), non sulla base di valutazioni urbanistiche, analisi di alternative o confronti competitivi, ma solo ed esclusivamente in base a valutazioni economico finanziarie operate dal proponente, non messe al vaglio, come la buona prassi richiederebbe, di un advisor indipendente. Inoltre, incredibilmente, non solo per opere così rilevanti non sono stati imposti i tanto auspicati (anche troppo) concorsi di architettura, ma addirittura per le opere pubbliche il privato ha affidato i progetti (che chiunque può consultare sul sito internet del Comune) direttamente a professionisti da lui discrezionalmente selezionati.

Questa deregulation è applicata anche al caso delle ex caserme di via Guido Reni. In questo caso il “beneficiario” principale è il MEF che le ha vendute a Cassa Depositi e Prestiti. Qui appaiono deboli i principi di concorrenzialità ma forse vi è anche il dubbio di concorrenza sleale nei confronti di altri operatori privati che quotidianamente impazziscono nei meandri della burocrazia capitolina. Infatti con la delibera di “indirizzo prescrittivo” il Comune ha attivato un percorso di accompagnamento al progetto. Ha così gestito direttamente un processo di partecipazione pubblica e un concorso di architettura a favore di un soggetto, che si autodichiara privato (CDPI Sgr), e disapplica, anche in questo caso, il Codice degli appalti, malgrado ai progettisti selezionati si stato chiesto di progettare tutte le opere pubbliche previste, compreso il Museo della Scienza. Per la qualcosa giace un esposto all’Autorità Anticorruzione. Ma poi perché non realizzare qui, dove è depositato un enorme capitale fisso sociale, le “metropolitane” torri di Libenskind invece, come appare dal progetto vincitore del concorso, di uno dei tanti quartierini residenziali delle periferie delle città europee?

Il virtuoso ruolo di “facilitatore” svolto da Roma Capitale in entrambi i casi sopra citati, è invece del tutto assente nel terzo progetto, quello dell’ex Fiera di Roma. Qui, guarda caso nei confronti di un proprietario pubblico, la società Investimenti SpA controllata dalla Camera di Commercio, il Comune ha assunto il ruolo dell’integerrimo decisore e, facendosi paladino delle proteste dei residenti del quartiere, ha ridotto considerevolmente la capacità edificatoria precedentemente attribuita all’area producendo un danno patrimoniale all’erario.

Insomma in questi tre casi sono stati sufficientemente garantiti i principi di equità, concorrenzialità, pubblicità, trasparenza, valutazione dell’utilità collettiva indispensabili in particolare in una urbanistica per interventi? E il rispetto del principio di riduzione del consumo di suolo? Dove sarebbe logica la densificazione si opera la de-densificazione e dove è logica la bassa densità, al contrario, si densifica.

Il giudizio su queste scelte lo dovrà esprimere innanzitutto chi prenderà il testimone, a iniziare dalla struttura commissariale. E quindi, primarie e non primarie per l’individuazione dei candidati Sindaco, buon lavoro a loro! E auguri alla città: nel 2025, Olimpiadi o meno e chiunque sarà il futuro Sindaco, ci sarà comunque un altro Giubileo che, seppur non dedicato alla Misericordia, potrà comunque consentire il perdono per gli eventuali ulteriori peccati urbanistici commessi.


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