Le relazioni diplomatiche tra la Russia e la Turchia continuano ormai da dieci giorni a essere sul crinale sottile che separa la pace dalla guerra. Dopo l’abbattimento dell’aereo da parte dei turcomanni e dopo le furiose reazioni di Vladimir Putin, siamo entrati adesso in una nuova fase più complicata del contenzioso.
Il nodo politico è costituito di due fattori importanti. Il primo riguarda le difficili relazioni in sé tra i due Paesi confinanti, oggi divisi anche sulla gestione del terrorismo. Il secondo concerne la dinamica dei rapporti Est-Ovest, non da ultimo l’appartenenza della Turchia alla NATO, che finisce per far diventare il braccio di ferro Mosca-Ankara l’occasione per ridiscutere i più generali equilibri internazionali ereditati dalla Guerra Fredda.
D’altronde Putin, muovendo l’accusa a Erdogan di avere interessi petroliferi che lo legano all’Isis, non fa altro che offrire in termini diversi, più peculiari e precisati, l’antico dilemma mai risolto riguardante il ruolo giudicato ambiguo dell’Europa atlantica nei rispetti del Califfato. Per questa ragione anche il sostegno russo ad Assad diviene sempre più forte e decisivo ogni ora.
Il presidente della Siria non ha mai smesso di accusare, da par suo, gli Stati Uniti di essere corresponsabili del caos che sta divorando nel calmiere della guerra tutto il Medioriente e il nord dell’Africa. Invece di sostenere le forze che esplicitamente contrastano lo Stato Islamico, vale a dire Russia, Siria e Iran, Washington giocherebbe a minare la stabilità politica dei potenziali alleati, finendo per spianare la strada alla crescita territoriale di Al Baghdadi e delle sue metastasi africane.
Il ragionamento di Putin e Assad è, tuttavia, troppo chiaro perché sia vero e convincente, in un quadro tanto articolato com’è quello che stiamo descrivendo. Non è detto, infatti, che chi dice di combattere il terrorismo, e lo fa con un’apparente durezza, sia poi intenzionato veramente come priorità a realizzare tale obiettivo. Alla Russia interessa, in primis, garantirsi un’egemonia di potenza nei confini meridionali, con la consapevolezza del fatto che il regime siriano costituisce un anello cruciale e un alleato di ferro.
Dall’altra parte, vero o no che siano le accuse di complicità economica con il terrorismo, gli interessi turchi vanno in direzione opposta.
Ora, di là della considerazione di specie, il quadro politico generale mostra una fortissima ripresa delle dinamiche identitarie e una decisa riaffermazione dello Stato nazionale come protagonista di guerra e di pace. E’ stato detto da alcuni osservatori che un effetto positivo degli attentati di Parigi sarebbe la solidarietà europea che si è manifestata come nuovo elemento di coesione. In realtà, purtroppo, la reazione francese e il modo in cui l’Unione si è disposta, non mostra realmente una traduzione in spirito comunitario di questa sensibilità continentale.
Il punto è che abbiamo riscoperto tutti che il fenomeno guerra non è assolutamente uscito dalla storia. E il contrasto armato si associa inevitabilmente al ritorno in campo della soggettività statuale rispetto ad altre forme federate di attuazione dell’ordine internazionale. Detto in altri termini, la famigerata guerra mondiale a pezzi è un fallimento del progetto europeo che si reggeva sul presupposto che nel Mediterraneo settentrionale regnasse la pace, e i singoli Paesi membri potessero rinunciare a una parte consistente di sovranità per creare una vasta area Schengen libera e senza confini.
I flussi di profughi dei mesi scorsi non sono stati un processo migratorio standard, ma il modo in cui la guerra ha fatto ritorno nel Vecchio Continente, perforato ai suoi margini dalla potenza di soggetti statuali comunque compatti e armati: Russia, Siria, Turchia, Iraq, Iran, eccetera.
In tal senso ogni Paese europeo si trova impreparato davanti al bivio di dover scegliere se perseverare in un cammino giusto ma debole come quello dell’integrazione e della concertazione, oppure mettersi sullo stesso piano in cui sono calati i vicini in guerra, riaffermando la sovranità politica e militare degli antichi e mai tramontati Stati fondatori.
Il cammino dell’Unione Europea si è interrotto con il sopraggiungere della guerra siriana, sebbene ciò non significhi un ritorno all’Europa del 1945. Si tratta piuttosto di riconsiderare lo scacchiere del mondo, tenendo conto che la priorità adesso non è commerciale ed economica, ma politica e militare. Come cittadini europei non abbiamo bisogno di un’amministrazione di Bruxelles centralizzata e burocratizzata, ma sentiamo la necessità di riscoprire chi siamo, avendo un sistema di difesa comune, attrezzato e sorretto da professionalità militari di altissimo livello, con un coordinamento d’intelligence rapido ed efficace.
L’Unione necessita, insomma, di una rapida rifondazione della propria natura, impossibile senza una dialettica forte d’identificazione nazionale e senza un rafforzamento materiale dei valori comuni che ne costituiscono l’essenza. Noi siamo la patria dei diritti individuali, ma possiamo esserlo più se prima non riusciamo a rintracciare lo spirito di appartenenza a noi stessi che rende possibile poi la libertà di una vita pacifica.
La guerra ha una logica sua, suscita e crea sentimenti condivisi, è generatrice di un consenso che è profondamente diverso rispetto alla pace. E se l’Europa attuale è nata come unione pacifica, sebbene le sue origini siano di popoli per millenni in lotta tra loro, è impossibile che oggi tale identità possa continuare a vivere allo stesso modo in un mondo ormai in irreversibile stato di guerra.