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Il Breakfast indigesto del Fatto Quotidiano di Travaglio

Meno male che magistrati e cronisti giudiziari chiamano Breakfast, l’equivalente inglese della nostra prima colazione, un’inchiesta che – parola del Fatto Quotidiano – “va avanti in gran segreto” da circa tre anni in Calabria. Tanto segreta che non se conosce bene neppure il contenuto, in termini di reati. Essi debbono comunque avere qualcosa da fare con la mafia, visto che è impegnata anche la direzione investigativa antimafia, appunto, della Procura competente per territorio.

Ma non sono invece più segrete le numerose intercettazioni eseguite, particolarmente sulle utenze telefoniche, fisse e mobili, di Isabella Votino, storica collaboratrice dell’ex ministro dell’Interno, ex segretario della Lega Nord e attuale governatore della regione più ricca d’Italia: la Lombardia. Parlo naturalmente di Roberto Maroni, Bobo per gli amici e gli ex compagni di banda musicale.

L’esclusiva della diffusione di queste intercettazioni è capitata proprio al Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio. Un giornale sicuramente bravo di suo nella ricerca di notizie e documenti riservati, ma altrettanto sicuramente favorito in questa specializzazione – senza volere con ciò denigrarne la professionalità – dal credito guadagnatosi fra magistrati e altri addetti ai lavori giudiziari. Che esso difende allo spasimo dagli assalti veri o presunti degli odiati politici, considerati abitualmente refrattari ad ogni controllo di legalità.

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Provate, o proviamo, ad immaginare la quantità di intercettazioni che sarebbe uscita dagli uffici delegati a tutelarne la segretezza se, anziché Breakfast, l’inchiesta giudiziaria si fosse guadagnata il nome di Lunch, equivalente inglese del pranzo, ben più sostanzioso della prima colazione, o Dinner, equivalente inglese della nostra cena.

Già nella versione Breakfast il materiale d’inchiesta pervenuto al Fatto Quotidiano ha consentito sinora quattro puntate di  un reportage sui “Segreti del potere”. Che sarebbero poi i segreti dei rapporti, politici e personali, fra Silvio Berlusconi e la Lega. Un Berlusconi intercettato fra la fine del 2012 e l’estate del 2013, quando era ancora coperto dall’immunità parlamentare e tutelato quindi dalla necessità di una preventiva autorizzazione della Camera di appartenenza, per essere casualmente incorso nelle telefonate della dipendente di Maroni. Che peraltro, collaboratrice anche del Milan, era in tale confidenza con il suo interlocutore da dargli del tu, da mandarlo qualche volta anche a quel paese, e da passargli all’occorrenza il comune amico Bobo perché si chiarissero e accordassero direttamente, quando lei non riusciva a mediare fra loro.

Fu così, fra l’altro, che Berlusconi e Maroni, allora segretario della Lega, dopo resistenze e persino minacce di devastanti campagne di stampa amica contro il Carroccio tornarono ad allearsi nelle elezioni del 2013. Quando il centrodestra sfiorò la vittoria, al cui pensiero ancora al Fatto vengono i brividi, perché in quel caso, almeno secondo i progetti coltivati ad Arcore, Berlusconi non sarebbe tornato a Palazzo Chigi, ma sarebbe salito al Quirinale. Sia pure per rimanervi solo “qualche mese”: giusto per provare l’aria del colle più alto di Roma e guadagnarsi il titolo e le prerogative del senatore a vita, di diritto. E poi parlare e agire, come fa adesso l’odiato Giorgio Napolitano, con il consolante e aulico titolo di “Presidente emerito”.

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Consapevoli, bontà loro, del fatto che le intercettazioni della collaboratrice di Maroni “probabilmente non porteranno a nulla” sul piano giudiziario, non essendo configurabili reati, per quanta fantasia potranno o vorranno metterci certi acrobati che non mancano mai nelle Procure e negli uffici attigui, al Fatto hanno deciso e scritto di pubblicarne il contenuto per il loro interesse informativo, o “rilievo pubblico”. Cioè per far sapere cosa è accaduto e potrebbe tornare ad accadere “dietro le quinte” della politica, magari ad opera e a vantaggio, la prossima volta, di Matteo Renzi, odiato da lor signori non meno dell’ormai sfinito Berlusconi.

Così le intercettazioni continueranno ad essere i “bignè” denunciati con la competenza maturata nella sua passata attività di magistrato da Piero Tony nel libro “Io non posso tacere”. Bignè -serviti per più quanto anni anche contro il piddino Filippo Penati, appena assolto a Monza dall’accusa di corruzione- che si sfornano per insaporire le cronache giudiziarie. E far prevalere sui processi regolari, se e quando vi si approda, i processi mediatici, celebrati con rito odiosamente sommario, e inappellabile.

E questa hanno ancora il coraggio di chiamarla giustizia. Una giustizia tuttavia risparmiata quando a nessuno venne la voglia, per esempio, di conoscere come maturò davvero nel 1996 l’operazione ulivista di Romano Prodi, o nel 2008 il pur suicida apparentamento elettorale di Walter Veltroni con Antonio Di Pietro. Non ci furono allora telefoni da poter intercettare. O intercettazioni da poter dirottare.


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