Skip to main content

Petrolio, ecco perché i prezzi bassi fanno sorridere gli Usa

Consumi, bilancia commerciale, strategie finanziarie e geopolitica: quando il petrolio va su o giù, schizzando verso l’alto o precipitando, tutto si tiene oppure si sfascia, a seconda che si tratti di Paesi consumatori ovvero produttori.
Gli Usa rappresentano un caso a sé. Intanto non si sono fatti prendere dalla follia della deflazione competitiva, come l’Europa, che è stata costretta a svalutare, con la Bce che immette liquidità a manetta, per tenere il livello dei prezzi sopra lo zero. Per l’economia europea, il crollo dei prezzi del petrolio rappresenta una catastrofe. Le famiglie americane, invece, ringraziano: i primi sono gli automobilisti che fanno il pieno all’auto con meno di due dollari al gallone, il prezzo più basso da dodici anni a questa parte. Un anno fa, sempre per il Thanksgiving, servivano tre dollari.

Anche la bilancia commerciale statunitense migliora. Un beneficio altrettanto rilevante è venuto dall’aumento della produzione energetica: nel 2014, gli Usa hanno sopravanzato l’Arabia Saudita come primo produttore con 13,9 milioni di barili al giorno rispetto a 11,6 milioni, seguiti dalla Russia con 10,8 milioni. Per merito del fracking, gli Usa si sono classificati anche primi produttori di gas naturale con 719 miliardi di metri cubi, seguiti dalla Russia con 631 miliardi e poi dall’Iran e dal Qatar con 170 miliardi ciascuno. Dalla combinazione di prezzi internazionali in calo e maggior produzione interna, è derivata la riduzione della bolletta energetica e del peso dell’import petrolifero. Nel mese di ottobre, l’esborso è stato di 12 miliardi di dollari, pari al 10,2% del totale del deficit per merci, mentre aveva pesato addirittura per il 66,2% nel marzo del 2011. Nei primi dieci mesi di quest’anno, il deficit petrolifero americano è stato di appena 71 miliardi di dollari, rispetto ai 189 miliardi dell’intero 2014, ed agli astronomici 386 miliardi di dollari del 2008. La bolletta energetica americana si è ridotta di oltre i due terzi. Le importazioni sono passate dai 453 miliardi di dollari del 2008 ai 156 miliardi dei primi dieci mesi di quest’anno.

Il calo dei prezzi internazionali del petrolio in dollari ha più che bilanciato l’apprezzamento del cambio reale del dollaro: l’indice, uguale a 100 nel gennaio 2011, è arrivato a 129,6 nel mese di ottobre scorso: +30% in meno di due anni. La rivalutazione del dollaro sta facendo nuovamente peggiorare il saldo commerciale: nei 12 mesi terminati ad ottobre, il deficit è infatti aumentato del 5,3%, per via di una contrazione dell’export molto più veloce (-4,3%) di quella dell’import (-2,6). La flessione della domanda mondiale, combinata ad un apprezzamento del dollaro, ha avuto sull’export americano un impatto negativo superiore a quello positivo che è stato determinato sull’import dalla riduzione dei prezzi dei prodotti petroliferi combinata ad una maggiore produzione interna.

Livelli bassi, e magari ancora più bassi, dei prezzi del petrolio, insieme ad una elevata produzione energetica interna, sembrano essere importanti dal punto di vista della politica monetaria. La posizione netta degli Usa verso l’estero è andata fortemente peggiorando, passando dai -1.985 miliardi di dollari di fine 2007 ai -7.020 miliardi di fine 2014. Rispetto a fine 2013, la differenza stata ancora di -1,692 miliardi. Nel corso del 2015, poi, l’incremento degli investimenti esteri in Treasury Securities è stato assai fiacco: a settembre, il totale sottoscritto era di 6.101 miliardi di dollari rispetto ai 6.069 di settembre 2014. Ha pesato lo scarso appeal dei bassi tassi di interesse, nella prospettiva di un loro aumento. Quest’ultimo farà affluire nuovi capitali, facilitando il finanziamento del disavanzo commerciale e del deficit federale, ma rafforzerebbe la divisa americana determinando un impatto negativo sul Pil in quanto favorisce l’import e penalizza l’export. Gli Usa non sembrano poter fare a meno di bassi prezzi del petrolio e di un elevato grado di autosufficienza energetica.

Il meccanismo dei petrodollari, che pure aveva rappresentato per molti anni una fonte sostanziosa per il finanziamento del deficit federale americano e per sostenere le quotazioni di Wall Street, sembra inceppato. I bassi prezzi del petrolio riducono fortemente la capacità dei Paesi produttori di accumulare risorse finanziarie nette dopo aver dato corso alle loro spese interne: non riescono più ad “estrarre” dalle economie reali dei Paesi consumatori un surplus di risorse in dollari da impiegare sui mercati finanziari. Inoltre, le transazioni petrolifere tra Russia e Cina tendono ad essere regolate nelle rispettive valute, mentre il dollaro resta come riferimento di prezzo. Taluni debiti russi in dollari vengono saldati vendendo gli yuan incassati come pagamento delle forniture alla Cina. Quest’ultima, approfittando dei prezzi convenienti, aumenta le riserve petrolifere, agevolando ulteriormente la Russia a fronteggiare il calo dei proventi e le sanzioni occidentali derivanti dalla annessione della Crimea. All’opposto, a fine ottobre il Congresso americano si è orientato a ridurre del 40% le riserve nel prossimo decennio, vendendo 266 milioni di barili per finanziare una serie di spese federali. Questa mossa, basata sulla ridotta dipendenza energetica, aumenterà la pressione al ribasso sui prezzi.

Nella competizione geoeconomica, già da un anno l’Arabia Saudita mantiene ferma la sua produzione per non perdere quote di mercato, anche a costo di far scendere in continuazione il prezzo del petrolio per via dell’eccesso di offerta. Questa posizione viene considerata come antagonista dello shale-gas americano, essendo finalizzata a provocare la progressiva chiusura di questi pozzi che hanno una sostenibilità economica ad un livello di prezzi assai più elevato di quello oggi di mercato. Ed in effetti, compaiono articoli sempre più allarmati circa il numero crecente di chiusure e di “zombie company” che sarebbero in grado solo di ripagare gli interessi sui debiti ma non di procedere con la produzione. Il paradosso è rappresentato dalla difficolà di interrompere i progetti di nuove trivellazioni, per limitarsi allo sfruttamento dei pozzi esistenti, poiché la produttività di questi ltimi cala in modo straordinariamete veloce, riducendosi anche del 90% dopo il primo anno di attività. Alle dozzine di fallimenti di queste compagnie, va aggiunta la recente riduzione della produzione americana di petrolio: la Iea ha stimato che a novembre è calata di 60 mila barili/giorno rispetto al mese precedente.

Il calo dei prezzi del petrolio comincia a mordere sulla offerta, anche se si tratta di eventi finora marginali, ininfluenti rispetto agli investimenti enormi che negli scorsi anni sono stati effettuati nel settore della ricerca, di maggiore capacità di produzione e di trasporto, attraverso nuove pipeline e petroliere. Secondo Goldman Sachs si potrebbe ripetere un nuovo lungo ciclo di discesa dei prezzi del petrolio, analogo a quello che iniziò nel 1980 quando il petrolio aveva toccato i 36 dollari per concludersi solo alla fine del ’88 quando scese a 14 dollari. È esattamente il periodo che va dall’ingresso delle truppe sovietiche in Afghanistan all’inizio della disgregazione dell’Urss sotto Michail Gorbachev, quasi che la caduta del prezzo del petrolio sia stata fatale, più del sostegno americano ai mujaeddin.

Anche oggi, la posizione della Arabia Saudita di mantenere inalterati i suoi livelli di produzione sembra rispondere a ragioni geopolitiche, nell’ambito dello scontro tra sunniti e sciiti in atto: per un verso rende più difficile la posizione economica dell’Iran ed il suo reingresso sul mercato petrolifero dopo la cessazione delle sanzioni, e per l’altro mantiene elevata la pressione sui ricavi della Russia che è già soggetta alle sanzioni occidentali e che a sua volta difende in Siria il presidente Bashar al-Assad. Gli Usa, a loro volta, osteggiano da tempo una ulteriore dipendenza energetica dell’Europa dalla Russia. Alcuni regimi politici, di impronta marxista ed antiamericana come quello venezuelano, sono già stati messi alle corde dal crollo del prezzo del petrolio. Il Brasile, prima ubriacato dall’afflusso di investimenti esteri, ora è in crisi profonda. La nuova presidenza dell’Argentina ha già riaperto canali di dialogo con gli investitori americani per pagare i debiti del default del 2001.

Con il petrolio, la guerra si fa sui prezzi: le quantità sono lo strumento per determinarli. Che vadano alle stelle, oppure che precipitino, non fa differenza; sono shock comunque destabilizzanti. L’Europa, ancora una volta, sta a guardare: comprerà da chi vince.



×

Iscriviti alla newsletter