Come ai tempi migliori di Bettino Craxi e di Silvio Berlusconi, arrivati a Palazzo Chigi, rispettivamente, nel 1983 e nel 1994 con il proposito di cambiare davvero il Paese e garantirgli una stabile “governabilità”, i toni forti di sfida usati domenica a Firenze dal presidente del Consiglio Matteo Renzi contro gli avversari dichiarati e occulti non sono piaciuti ai cultori delle cosiddette buone maniere.
Persino il buon Piero Ostellino gli ha dato del “fascistello” sul Giornale mandando, credo, in brodo di giuggiole il direttore Alessandro Sallusti. Che da tempo ha smesso di apprezzare “le palle” una volta riconosciute a Renzi in prima pagina, sulle fatidiche nove colonne. “Fascistello”, come scappò di scrivere, o lasciar scrivere, dell’allora aspirante segretario del Partito Democratico al direttore della penultima edizione dell’Unità Claudio Sardo. Che ci rimise poi il posto e il giornale, fallito e rimasto per un po’ fuori dalle edicole, sino a quando Renzi, nel frattempo arrivato alla guida del governo, e non solo del Pd, non trovò le persone e i modi per riportarvelo. Nel frattempo l’ex direttore era diventato fra i più apprezzati collaboratori del nuovo presidente della Repubblica.
(ECCO LE RECENTI SMORFIE DI MATTEO RENZI COLTE DA UMBERTO PIZZI)
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Dalla Repubblica vera, in carne e ossa, fondata dagli elettori nel 1946 e presieduta ora da Sergio Mattarella, passiamo a quella di carta più modestamente fondata da Eugenio Scalfari nel 1975 e in procinto di essere diretta da Mario Calabresi, che succederà fra un mese a Ezio Mauro.
Da Calabresi, direttore uscente della Stampa, si è detto e scritto, si vedrà se a torto o a ragione, che Renzi si aspetti più credito di quanto non gli abbiano voluto dare Mauro e soprattutto Scalfari, anche dopo l’apprezzamento espressogli pubblicamente e ripetutamente dall’editore Carlo De Benedetti. Che, pur essendosene poi scusato, ha nominato il nuovo direttore senza consultare il fondatore dichiaratamente “infastidito” da questa pur legittima procedura.
In attesa di Calabresi, dalla Repubblica si è levato con “Il punto” del notista politico Stefano Folli un commento a dir poco urticante alla sesta edizione del raduno fiorentino dei renziani all’ex stazione Leopolda, liquidata nel titolo come “un’occasione mancata”, e nel testo come “un’occasione perduta” e un po’ troppo “provinciale”. Da cui, al di là e contro “lo slogan senza tempo” usato da Renzi al termine del discorso per invitare gli amici a “prenderci il futuro”, sarebbe emersa “la fatica di dare uno sbocco a una costruzione politica che resta al fondo fragile”.
Ma, oltre ad essere “fragile”, la costruzione di Renzi – ha pesantemente aggiunto Folli – sarebbe “esposta ai rischi degli scandali e delle inchieste giudiziarie”. “Un paradossale contrappeso -ha infierito il notista di Repubblica sul presidente del Consiglio- per chi cominciò la sua ascesa non esitando a usare la mannaia del giustizialismo e anche del moralismo contro gli avversari, a cominciare da quelli del suo stesso partito”.
(CHI ERA ALLA LEOPOLDA 2015. TUTTE LE FOTO)
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A Renzi è stato contestato da Folli anche il carattere di “plebiscito” personale che egli mostra di voler dare al referendum dell’anno prossimo sulla riforma costituzionale gestita in Parlamento dalla ministra Maria Elena Boschi. Della quale i grillini hanno appena chiesto la testa con una mozione di sfiducia per il malaffare della Banca Etruria, dove il padre è stato per alcuni mesi vice presidente, peraltro sanzionato con altri amministratori dalla Banca d’Italia.
In quel tipo plebiscitario di referendum sulla riforma costituzionale, che non potrà forse contare per questo sul sostegno di Repubblica, per quanto diretto da Calabresi, il buon Folli ha visto la prova che “il fine del renzismo è Renzi stesso”, affetto purtroppo anche da “insofferenza verso la stampa” che lo attacca.
(UMBERTO PIZZI ESTASIATO DA MARIA ELENA BOSCHI. LE FOTO PIU’ RECENTI)
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Se queste cose Folli non le avesse scritte su Repubblica ma le avesse dette il giorno prima al teatro romano dove si erano riunite le minoranze del Pd, sarebbe stato acclamato. Ancor più della radicale Emma Bonino, curiosamente accorsa a quel raduno nonostante i semi sparsi da Marco Pannella anche nel campo renziano, dove abbiamo solo qualche giorno fa ricordato le tante e qualificate presenze di radicali cresciuti con Francesco Rutelli.
Capisco la delusione procurata da Renzi alla Bonino con la sbagliata e anche sgarbata decisione, appresa dall’interessata alla televisione, di non confermarla nel proprio governo alla guida del Ministero degli Esteri. Ma non per questo riesco a comprendere quali siano le affinità politiche – ripeto, politiche – della tosta leader radicale con le minoranze del Pd e dintorni, dove c’è troppa nostalgia del Pci e della sinistra democristiana.
(CHI C’ERA ALL’ANTI LEOPOLDA DELLA MINORANZA PD. LA GALLERIA FOTOGRAFICA DI PIZZI)