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Tutti i passi (e gli ostacoli) dell’accordo Onu sulla Siria

Una risoluzione approvata all’unanimità dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite due settimane fa mette l’organismo formalmente dietro ad un lungo piano negoziato per la crisi in Siria, che richiede un cessate il fuoco, i colloqui tra il governo siriano e l’opposizione e una linea temporale di sei mesi per creare un governo di unità nazionale e indire le elezioni entro 18 mesi. L’accordo, tappa finale di un percorso iniziato a Vienna il 30 ottobre con la partecipazione della Russia, prevede che i negoziati formali tra governo e opposizione siriana comincino a gennaio del 2016.

I PROBLEMI

«La risoluzione è uno sviluppo positivo […] una rara dimostrazione di unità del Consiglio di Sicurezza» ha scritto l’editorial board del New York Times, facendo riferimento ai cinque anni di guerra che hanno prodotto oltre 250mila morti più un’enorme crisi di rifugiati, e al precedente veto posto nel 2011 da Russia e Cina per una risoluzione Onu del conflitto (quando era appena iniziato). Il problema, secondo la linea editoriale del NYTimes, è che l’accordo onusiano  è comunque insufficiente e carente. Ha scritto su Formiche.net Marco Orioles, docente di Sociologia all’università di Udine ed esperto di Islam, «jihadismo e settarismo: le due principali fonti della fitna che ha gettato il Medio Oriente nel caos sono tutt’altro che risolte nell’equazione scritta al Palazzo di Vetro». Manca inoltre un’intesa su chi rappresenterà le opposizioni e sul ruolo che giocheranno vari attori chiave, sponsor esterni proprio di quelle opposizioni, come l’Arabia Saudita, che ultimamente ha rilanciato la propria centralità regionale dando il via ad un’alleanza militare che è stata definita “Nato islamica”; c’è poi la Turchia, che ha utilizzato la Siria nel tentativo di espandere la propria impronta in Medio Oriente e ha ottenuto credito anche dall’Europa per la gestione dei migranti; infine l’Iran, che nonostante l’accordo internazionale sul suo programma nucleare, continua a muoversi secondo una propria, personale, agenda.

E ASSAD?

Irrisolto è anche il futuro di Bashar al-Assad. I gruppi ribelli sostenuti da Arabia Saudita e Turchia insistono sul fatto che debba essere subito rimosso dal potere. La Russia e l’Iran hanno cercato di evitarne il rovesciamento, aumentandogli il sostegno militare e finanziario e tra qualche giorno il presidente siriano sarà protagonista di una visita ufficiale a Teheran, la seconda dopo quella moscovita da cinque anni ad oggi. Per gli Stati Uniti, invece, prima la rimozione era una conditio sine qua senza la quale non si sarebbe raggiunta nessuna soluzione, mentre ora Washington sostiene una transizione negoziata che includerebbe anche membri del regime. Il NYTimes spiega che la situazione è confusa: se è vero che adesso la rimozione potrebbe portare ancora più destabilizzazione, «sarebbe vergognoso se a un tale macellaio fosse permesso di correre alle elezioni che il nuovo piano prevede entro due anni».

IL CESSATE IL FUOCO: UN’UTOPIA

Pure il cessate il fuoco, che dovrebbe essere l’aspetto del piano Onu più vicino alle esigenze umanitarie dei civili, secondo il giornale americano è impraticabile: non si possono mandare i peacekeeper, perché non c’è nemmeno un qualche genere di cosa che assomiglia alla pace. È il campo a testimoniare queste affermazioni: si combatte, più o meno senza sosta, su tutti i fronti asimmetrici del conflitto, da nord a sud. Uniche tregue raggiunte, alcune (rare) a livello locale: aspetti puntuali che possono essere sì una buona pratica da seguire, ma che sono complicati dalla molecolarizzazione dei fronti dell’opposizione.

LA RUSSIA

Su Politico un gruppo di 76 personalità, tra diplomatici, funzionari eletti e consiglieri, coperti da anonimato e riuniti dal giornale in un caucus, ha sostenuto a maggioranza che è arrivato il momento che l’Occidente «metta da parte la sfiducia e inizi a lavorare con la Russia per costruire un partenariato strategico».

Le vittime civili. Il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov, ha commentato la chiusura del vertice Onu che s’è tenuto il 18 dicembre dicendosi «non molto convinto di quello che s’è deciso», e il ruolo di Mosca resta uno dei grandi dubbi sull’accordo. Una settimana fa, un attacco aereo russo ha colpito diverse strutture civili ad Idlib, una città in cui non c’è lo Stato islamico, ma che è sotto il controllo dei ribelli: solo l’ultimo di questo genere di attacchi in difesa del regime, portati anche attraverso l’uso di bombe a grappolo, che secondo i calcoli di Amnesty International hanno prodotto più di 200 morti tra i civili. Nel rapporto, Amnesty ha detto di aver “studiato a distanza” più di 25 attacchi russi che hanno avuto luogo a Homs, Hama, Idlib, Latakia e Aleppo tra il 30 settembre e il 29 novembre, su obiettivi che non erano di interesse militare. Per Mosca si evoca l’accusa di crimini di guerra, questione che rende ancora più complicata una qualche intesa con l’Occidente. Se è vero che il Califfato ha perso più del 14 per cento di territorio, come dimostrato da alcuni istituti di analisi, quel controllo è venuto meno soprattutto in Iraq, da dove arrivano le principali vittorie contro i baghdadisti (come nel caso della simbolica Ramadi) e dove la Russia non è impegnata nelle operazioni anti Isis.



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