Skip to main content

Le grillate di Gianroberto Casaleggio

GIANROBERTO CASALEGGIO

Va bene che il Natale, per l’uso commerciale spesso smodato che se ne fa, è andato via via assumendo aspetti della successiva stagione del Carnevale. Ma temo che Gianroberto Casaleggio, il “guru” dei grillini, già consigliere di un allora ministro Antonio Di Pietro, una versione autodidatta di quello che fu per i leghisti, loro progenitori politici, il compianto e titolatissimo Gianfranco Miglio, abbia esagerato decidendo di diffondere proprio di Natale, con le settanta pagine e rotte del suo Veni, vivi, web, parafrasato dal famoso Veni, vidi, vici di Caio Giulio Cesare, le caratteristiche di uno Stato e di una società pentastellare. Roba da mozzafiato politico.

Lo stesso Beppe Grillo, che ha con Casaleggio un consolidato rapporto di amicizia, simpatia e ammirazione, pare ne sia stato sorpreso. E abbia scherzosamente chiesto ai suoi non meno perplessi interlocutori perché mai Casaleggio con i suoi paradossi si sia messo a fargli concorrenza come comico. Peraltro a rischio di danneggiare il movimento delle 5 Stelle proprio mentre questo cresce nei sondaggi e toglie il sonno agli avversari. A cominciare da chi, come il giovane presidente del Consiglio e segretario del Pd Matteo Renzi, ostenta per convinzione o professione, o entrambe, maggiore sicurezza correndo tra militari, inaugurando varianti autostradali e fulminando i gufi con lo sguardo.

Ma neppure mettendo l’esangue Mahatma Gandhi al posto dell’esuberante e truce Gengis Khan adottato da Casaleggio come suo personaggio di riferimento, Grillo può pensare davvero di essere riuscito ad apporre una pezza allo sbrego mediatico dell’amico. Che ha voluto “provocare” il pubblico, come ha poi cercato di giustificarsi con il Corriere della Sera, sognando di vivere e magari anche di governare un Paese senza macellerie, tabaccherie, ipermercati, parrucchieri e librerie. Un Paese in cui siano bandite le statue in onore del povero Giuseppe Garibaldi, magari rimosso anche dalla sua tomba a Caprera, e le carceri riempite di tagliatori d’alberi, da condannare a 30 anni di detenzione, senza possibilità di sconti o di grazie presidenziali. Alle quali è appena ricorso con tre decreti Sergio Mattarella, pur lasciando perdere i tagliaboschi, giusto per ricordare le sue prerogative di capo dello Stato.

++++

Un anticipo politico, rigorosamente politico, per carità, del Carnevale, in cui – si sa – ogni scherzo vale, è l’annuncio dell’arrivo di Sandro Bondi e della sua compagna Manuela Repetti sotto l’Ala parlamentare dell’ex forzista, pure lui, Denis Verdini.

 

È una coppia a suo modo amabile quella senatoriale di Bondi e Repetti, ma la sofferenza da loro ripetutamente dichiarata uscendo insieme da Forza Italia, e chiudendo così un lungo rapporto di simbiosi anche umana con Silvio Berlusconi, sarebbe stata più coerente, se non vogliamo dire più credibile, se accompagnata con le dimissioni dal Parlamento. Dove né l’uno né l’altra possono francamente sostenere di essere arrivati con le loro sole gambe, essendo stati eletti in liste rigorosamente bloccate. Che comportano l’elezione, appunto, non nell’ordine voluto dai cittadini con il vecchio e, secondo me, troppo sbrigativamente odiato sistema delle preferenze, ma nell’ordine della loro iscrizione fra i candidati. Un ordine voluto dal capo partito e intimi, con la circostanza aggravante, in questo caso, del ruolo di coordinatore assegnato a Bondi, sempre da Berlusconi.

++++

Conosco bene l’obiezione che si muove alla coerenza invocata da chi si aspetta che alle dimissioni di un parlamentare dal proprio partito seguano quelle dalla Camera di appartenenza. È il richiamo all’articolo 67 della Costituzione, che garantisce l’esercizio della funzione parlamentare “senza vincolo di mandato”. Un articolo che peraltro non è stato cambiato nella riforma costituzionale voluta da Renzi, e ormai in dirittura d’arrivo, per quanto la nuova legge elettorale, chiamata Italicum, anch’essa fortemente voluta da Renzi e applicabile dalla prossima estate, assegni d’ufficio un consistente premio di maggioranza alla lista più votata, in prima o seconda battuta. Per cui anche gli effetti del premio di maggioranza voluto dal legislatore a garanzia della cosiddetta governabilità del Paese potrebbero essere vanificati dai Bondi, Repetti e Verdini di turno.

 

Peccato, almeno per i miei gusti, coincidenti stavolta – pensate un po’ – con quelli di Grillo e Casaleggio, che Renzi non abbia voluto istituire nella sua riforma costituzionale il vincolo di mandato. Ma non vi è arzigogolo di esperti che possa negare il collegamento storico e logico del divieto del vincolo di mandato con il sistema elettorale delle preferenze all’epoca dell’approvazione della Costituzione, 68 anni fa, proprio di questi tempi, quando il Natale veniva davvero prima del Carnevale.

Per lasciare in Costituzione l’assenza del vincolo di mandato, e consentire con un minimo di decenza la transumanza in corso nelle Camere, ridateci per cortesia le preferenze, o quanto meno il collegio uninominale. Dove ad ogni partito corrisponde, ben riconoscibile sulla scheda, un candidato. Votando il quale si può davvero dire che l’elettore gli dia una delega in bianco.


×

Iscriviti alla newsletter