Le polemiche scoppiate con la crisi delle quattro banche del centro Italia e il loro salvataggio, ha fatto emergere una sorta di nuovo senso comune che in realtà è la versione aggiornata di un mantra recitato dall’inizio della lunga recessione: il sistema bancario italiano era sano, le difficoltà attuali sono conseguenza della crisi, dunque la colpa va rigettata sull’austerità e, in definitiva, sulla ottusa ostinazione tedesca. E’ vero?
I crediti dubbi sono aumentati del 222% dal 2009, raggiungendo i 191 miliardi secondo le stime di Mediobanca. Le popolari hanno fatto ancora peggio: più 502 per cento, a quota 50 miliardi. Tutto questo è l’effetto della recessione, anche se si dovrebbe discutere sul modo di fare credito delle banche popolari e di quelle locali in genere (quel che sta emergendo in questi giorni lo dimostra). Ma facciamo qualche passo indietro, esattamente all’ottobre 2008, subito dopo il fallimento della Lehman Brothers.
Sui mercati finanziari si diffonde la convinzione che la prima grande banca a saltare sia Unicredit e parte un attacco speculativo che fa crollare il titolo del 13% il 6 ottobre. Tutta una manovra? L’amministratore delegato Alessandro Profumo dice che la crisi finanziaria mondiale è più grave del previsto e ammette di averla sottovalutata. “Abbiamo fatto degli errori”, ammette e chiede un aumento di capitale di 6,6 miliardi. A Mediobanca si studia anche una soluzione estrema, una sorta di fusione che porti la controllante (dotata di maggior capitale) a controllare la controllata.
Unicredit aveva da poco acquistato Capitalia, ma non l’aveva ancora ingoiata (per digerirla ci vorranno anni). Un’altra grande banca italiana stava completando una acquisizione che sembrava azzardata fin dall’inizio e si rivelerà fatale: la presa dell’Antonveneta senza averne i mezzi. Si discute ancora se (e perché) è stata sopravalutata di almeno due miliardi. Ma è ormai certo che Mps non aveva il capitale sufficiente, tanto da ricorrere a escamotage finanziari condotti in modo superficiale e persino truffaldino (Alexandria docet). Banca Intesa si era fusa a sua volta da un anno con il Sanpaolo e si trovò ad affrontare la tempesta con un vascello più grande, ma appesantito.
Tutte queste operazioni sono state approvate dalla Banca d’Italia guidata da Mario Draghi in modo meno dirigista rispetto ad Antonio Fazio, ma non per questo erano tutte strategicamente corrette e tutte sostenibili. Chi non ha perso la memoria ricorda come avvennero, quale fu il gioco strategico, ma anche la gara tra grandi banchieri e il conflitto delle personalità. Ricorda la spinta del governo Prodi nel timore di scalate straniere (il Banco di Santander per esempio). E ricorda che sembrava uno scambio di figurine: ce l’ho, ce l’ho, mi manca…
“Nessuna banca italiana fallirà”, dichiarò Giulio Tremonti allora ministro del Tesoro e lanciò i Tremonti bond che verranno poi utilizzati da Mps nella versione Monti bond. Unicredit da allora in poi ha varato diversi aumenti di capitale che sono andati a buon fine, ma hanno stravolto l’assetto proprietario della unica banca italiana considerata sistemica a livello internazionale: le Fondazioni si sono ritirate a favore dei fondi di investimento e soprattutto del denaro arabo, quello libico e quello degli sceicchi che, oggi come oggi, solleva quanto meno qualche interrogativo sul piano della sicurezza strategica non solo italiana, ma europea. Il denaro dunque odora, anzi talvolta puzza. E il libero mercato non può certo diventare il cavallo di Troia dell’islamismo.
Erano solide, dunque, le maggiori banche italiane? Fin da allora era evidente che la loro capitalizzazione era insufficiente, che si erano ingrandite sbagliando quanto meno i tempi, perché nel fatidico 2007 era già chiaro che cosa si stava preparando tanto che nell’estate fallì una banca tedesca e la Bce ad agosto cominciò a iniettare liquidità nel sistema, addirittura prima della Federal Reserve.
Erano sane le banche italiane all’inizio della crisi, prima della penalizzante austerità? Qualche dubbio, quanto meno, andrebbe sollevato. Anche per impostare bene la discussione sui salvataggi, sulle regole europee e sul bail-in. Si fa strada l’opinione che nessuna banca debba chiudere i battenti e che i costi del malfunzionamento di un’azienda di credito debbano essere ripartiti su tutti perché siamo tutti in modo o nell’altro risparmiatori e il risparmio è tutelato dalla costituzione. Così vengono assolti i manager e gli azionisti, si socializzano le perdite e si privatizzano i profitti (visti i bonus e le buonuscite in bilancio).
Si dice che le regole europee sono penalizzanti e discriminanti, ma si dimentica che il fondo interbancario italiano interviene ex post, e finisce così per caricare le perdite delle banche inefficienti su quelle migliori, secondo la vecchia regola che la moneta cattiva caccia quella buona.
La discussione è complessa ed è in corso anche su Formiche.net. Ma perché sia oggettiva e fruttuosa bisogna sgombrare il campo da quell’assunto sbagliato: no, le banche italiane non erano sane, non lo erano le piccole, quelle locali (tanto ingiustamente esaltate) che servivano per aiutare gli amici e gli amici degli amici, ma non lo erano nemmeno le grandi, colpite dalla crisi nel bel mezzo di una frenesia espansionistica motivata spesso da ragioni politiche.
Oggi le banche italiane vanno rafforzate. C’è il rischio che regole troppo ferree e stringenti le ingessino e compromettano la loro capacità di manovra, anche su questo il dibattito è aperto, ma in ogni caso hanno bisogno di più capitale, di una migliore qualità degli attivi e di un azionariato solido e stabile. Le raccomandazioni di Draghi, di Mark Carney (governatore della Banca d’Inghilterra e capo del Financial stability board) e di Ben Bernanke, l’ex capo della Federal Reserve, non vanno prese sotto gamba.
Stefano Cingolani