La nuova Libia, ha spiegato ieri Matteo Renzi incontrando il primo ministro libico designato, Fayez Al Sarraj, potrà contare sul sostegno che l’Italia, in coordinamento con la comunità internazionale, vuole assicurare “per la riabilitazione dei servizi essenziali, la creazione di premesse per lo sviluppo economico e sociale” e “per la stabilizzazione del Paese”, martoriato da divisioni, terrorismo e traffico di esseri umani.
Sulla stampa prendono corpo alcune ipotesi: sul Corriere della Sera Marco Galluzzo parla oggi di “modello iracheno”, mentre su Repubblica Stefano Folli ricorda la recente visita del presidente del Consiglio in Libano, come segnale del “coinvolgimento italiano” nello scenario mediterraneo.
Ma in cosa consisterebbe una missione occidentale nel Paese? Chi vi prenderebbe parte? Di quanti uomini e di quali mezzi avrebbe bisogno? E quali sarebbero i rischi connessi a un intervento simile?
Sono alcuni degli aspetti analizzati in una conversazione di Formiche.net con il generale Mario Arpino (nella foto), già capo di Stato maggiore della Difesa, oggi membro del consiglio direttivo dello Iai (Istituto Affari Internazionali).
Generale, quali saranno i prossimi passi dell’impegno italiano e occidentale in Libia?
Proprio ieri il premier designato Fayez Al Sarraj è stato ricevuto da Matteo Renzi. Se si trovasse un accordo sul governo, e si sta lavorando in quel senso, allora entrerebbe in gioco una coalizione internazionale a guida italiana, chiamata ad offrire il supporto necessario per pacificare il Paese.
Ci sono le condizioni per farlo?
Gli ingredienti ci sono tutti quanti: c’è ormai una risoluzione dell’Onu ed è legittimo pensare che con un’intesa si sarà anche una richiesta del nuovo governo. Il problema, semmai, sarà cosa fare.
Sulla stampa fioccano le ipotesi. Si parla di diversi modelli: libanese o iracheno su tutti.
Per fortuna non si parte da zero, ma c’è già una struttura. Si tratta della missione europea, articolata in tre fasi. Prevede un rafforzamento del dispositivo navale e delle attività di intelligence. Ora andrà implementata con una presenza di terra ed è su questo che s’interroga. In questo frangente credo che non si potrà parlare né di modello libanese né iracheno, ma che bisognerà ragionare su un modello libico.
Perché non ritiene applicabili esperienze pregresse?
La Libia ha caratteristiche uniche sia territoriali sia politiche. Dopo una fase iniziale, in Iraq l’Occidente non è intervenuto molto, ha addestrato le forze locali, a cui poi si è appoggiato, ma lo zoccolo duro ha contato sul sostegno dell’Iran sciita. Uno scenario non replicabile nel Paese nordafricano. Ma non è nemmeno questa la differenza più grande. In Iraq c’era un esercito unico. Mentre nell’ex regno di Muammar Gheddafi deve essere ancora sciolto il nodo di chi guiderà le prossime Forze armate. Al momento c’è un esercito, comandato dal generale Khalifa Haftar, ma rappresenta solo Tobruk. La sua figura non è aggregante. È evidente che nell’esercito della nuova Libia dovranno essere implementate anche le milizie di Tripoli o questo schema non reggerà. Più facile a dirsi che a farsi, senza contare che rispetto agli altri due teatri, nel Paese nordafricano si deve fare i conti immediatamente con la presenza sempre più pericolosa dello Stato Islamico.
Se tutto dovesse filar liscio, di quanti uomini ci sarebbe bisogno in Libia? E quali Paesi li fornirebbero?
In Libano, il modello più vicino a quello da usare in Libia, abbiamo schierato circa 11mila uomini. Nel Paese nordafricano però non sarebbero sufficienti. Se tenessimo conto delle dimensioni del Paese dovremmo portare 100mila soldati, diciamo anche 50mila per tenerci al minimo possibile. Probabilmente saranno Italia, Francia e Regno Unito a dare il contributo maggiore. Gli Usa offriranno supporto, ma ritengo difficile che vadano oltre alcune forze speciali.
Quale dovrebbe essere, invece, il dispositivo militare?
Oltre alla scontata attività di intelligence, servirebbe una combinazione di forze navali, di terra e aeree. Per ciò che riguarda le forze sul terreno, servirà predisporre almeno quattro hub da cui dispiegare non solo soldati occidentali, ma anche quelli del Paese. In ambito aereo dovremmo utilizzare droni a scopo di ricognizione e schierare, come in Afghanistan, cacciabombardieri da tenere in allerta. Potrebbero partire dall’Italia o essere piazzati anche su territorio libico, questo si vedrà.
La Nato interverrà?
Non come organizzazione, ma se chiamata in causa offrirà sicuramente un supporto, anche perché la missione conterà in larga parte su forze dei Paesi dell’Alleanza atlantica.
Quali sono gli errori da non commettere in una possibile azione militare in Libia?
Soprattutto sparpagliare gli uomini. È prevedibile che dopo una prima parvenza di stabilità assisteremo una recrudescenza di violenza. Dobbiamo mantenerli uniti, altrimenti saranno esposti a pericoli molto gravi. L’Italia, al tempo stesso, dovrà anche guardarsi bene dai suoi alleati, che proveranno, come accaduto in passato, a erodere i suoi interessi nella regione. Penso al Regno Unito, che proverà a piazzarsi sul lato egiziano. Ma soprattutto alla Francia, che non ha mai visto di buon occhio la presenza di Roma in Nordafrica, che considera una sorta di suo cortile di casa.
Quale può essere, invece, il ruolo delle potenze regionali?
L’Egitto vorrà partecipare a tutti i costi, per entrare in Cirenaica e rimanerci. Sarà questo uno degli aspetti più delicati di cui tener conto. Perché le potenze regionali, Cairo e non solo, finora sono state più parte del problema che della soluzione del rebus libico.
Alcuni osservatori ritengono che in questo scenario anche la Russia potrebbe ritagliarsi un ruolo.
Non è inverosimile. Mosca sta portando avanti una strategia tesa a riempire gli spazi lasciati vuoti da Washington. Va letto anche così il rinnovato interesse verso le sorti del Paese nordafricano da parte della Casa Bianca, che ha organizzato con la Farnesina il recente summit a Roma. Il Cremlino proverà a entrare nella partita attraverso l’Egitto, che a volte si sente trascurato dagli Stati Uniti. Ma credo che l’attivismo di Vladimir Putin sarà speculare a quello di Barack Obama. Se gli Usa non interverranno in modo netto in Libia, anche la Russia si terrà in disparte.