Tre giorni fa, due grandi giornalisti esperti di sicurezza, guerra e terrorismo, Mark Mazzetti e Eric Schmitt, scrivevano sul New York Times del grande uso che Barack Obama sta facendo dei reparti speciali delle Forze armate americane. Le Special operation force (Sof) sono largamente impiegate in molti teatri operativi, e svariati commandos si trovano (quasi sempre in incognito) in altre aree ritenute sensibili dal Pentagono; questo approccio è ormai piuttosto diffuso, e piccoli team di forze speciali sono disposti da diversi stati laddove si ritiene che necessità di interesse nazionale ne richiedono l’impiego. Di questo argomento se n’era occupata qualche settimana fa anche Formiche.net.
Più o meno, questi uomini hanno compiti di intelligence e raccolta informazioni, sovrapponendo il loro utilizzo a quello delle spie, dei servizi segreti, ma in aree più difficile e impervie rispetto alle sedi diplomatiche centrali, rappresentando comunque una forza specializzata di pronto intervento (quando a metà novembre i terroristi presero degli ostaggi in una hotel nella capitale del Mali, sul posto arrivano uomini delle forze speciali americane per coordinare le operazioni di recupero). In Italia è in discussione un emendamento proposto dal senatore del Partito democratico Nicola Latorre, che propone proprio di affidare alle Sof compiti da 007 in specifiche missioni (in molti dicono che è praticamente formalizzare ciò che i reparti speciali fanno già).
Nota: effettivamente le forze speciali sono la componente degli eserciti più versatile, affidabile, precisa, e dunque il loro impiego trova un giustificazione tecnica indiscutibile. Politicamente, invece, c’è qualche controversia, soprattutto negli Stati Uniti.
L’articolo del New York Times ha un suo valore politico, perché dall’analisi fatta dai due giornalisti esce che ci sono migliaia di militari americani disposti “boots on the ground”, cioè Obama sta andando contro una delle basilari promesse che lo hanno accompagnato fin dalla prima elezione: demilitarizzare l’impegno estero americano. Ritiro dall’Iraq e dall’Afghanistan, minore presenza militare, solo intelligence e osservazioni dall’alto, niente militari a terra: notare che nel pezzo del NYTimes, questi aspetti figurano in modo relativo, ma già il fatto che esca un’analisi di tal genere ha un valore per certi aspetti critico nei confronti di questa controversia tra il say e il do obamiano. Il Nyt è spesso morbido con la presidenza.
Davanti alle continue notizie in merito all’invio di nuove squadre di forze speciali nei quadranti più caldi del mondo, dall’Iraq alla Siria, alla Libia o al Camerun per contrastare il Califfato, fino all’Afghanistan, ufficialmente la Casa Bianca usa due linee (entrambe difensive) di giustificazione. Una è quella di calcare il fatto che questi soldati sono spediti in missione senza ruolo “combat” nelle loro regole di ingaggio: una parola, “combat”, che nasconde dietro un universo politico, perché la sua assenza implica che questi militari non possono partecipare a scontri a fuoco, cioè si trovano in quei posti con altri compiti. Come fornire consulenza e training alle forze locali, garantire sicurezza per eventuali interessi nazionali, raccogliere informazioni, fino ai livelli più alti, come l’intelligence. Quindi, non combattono, non muoiono, e l’opinione pubblica è calmierata. Se non fosse che poi dal campo escono informazioni differenti: per esempio, durante l’assalto talebano a Sangin, nel sud dell’Afghanistan, avvenuto pochi giorni fa, sembra che almeno 60 Sof americane e 30 inglesi abbiano preso parte attiva alla battaglia contro gli insorti. Stesse notizie arrivano dall’Iraq, durante gli scontri per riconquistare all’Isis Ramadi. Davanti a queste circostanze, difficilmente negabili anche se ufficialmente mai confermate, la Casa Bianca ha adottato anche un’altra linea, sintetizzata da Obama stesso durante un’intervista concessa questo mese alla CBS News: “Lo sai che quando dico “No boots on the ground” io penso che generalmente la gente americana abbia capito che intendo riferirmi al fatto che non andremo in Iraq e Siria con un’invasione Iraqi-style (cioè simile a quella del 2003. ndr) con battaglioni che attraversano il deserto” ha detto il Prez all’intervistatore. Insomma, Obama ha spiegato che ci sono alcuni stivali che possono essere anche posati sul terreno.
Tra gli espedienti mediatici che la Casa Bianca s’è trovata ad usare per giustificare l’invio di reparti speciali per far fronte all’avanza jihadista, c’è anche un’altra definizione semantica. All’inizio di dicembre il segretario alla Difesa Ash Carter ha annunciato l’invio di un altro contingente di forze speciali in Iraq, definendolo però una “élite targeting force” come riporta il Washington Post. Definizione nel politichese del Pentagono, che però, a leggere tra gli incarichi, non riesce a nascondere bene il fatto che sono Sof e che avranno il compito di «condurre raid, liberare gli ostaggi, raccogliere informazioni e catturare i leader Isil» (Isil è un acronimo spesso usato in America che ha lo stesso valore giornalistico di Isis: la “L” sta per “Levant”).
Ad ottobre, durante uno di questi raid in Iraq, un operatore della Delta Force è rimasto: si è tratto del primo KIA, ossia killed in action (definizione usata dai militari per indicare un commilitone ucciso dal nemico), dall’inizio delle operazioni contro lo Stato islamico e s’è portato dietro una bufera di polemiche sia tra l’opinione pubblica, ormai sedata dai mantra demilitarizzanti obamiani, sia tra i politici, che in fase di campagna elettorale per la presidenza, non aspettavano altro per attaccare la Casa Bianca.