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Cop21, cosa fare dopo Parigi

Di Pasquale Salzano
climate change cop 24

“Il miglior equilibrio possibile”. Così Laurent Fabius ha definito lo storico accordo sul clima raggiunto a Parigi lo scorso sabato 12 dicembre. Una frase che ricorda “il migliore dei mondi possibili” del precettore del Candido di Voltaire, ma che incarna il sollievo dell’Europa rispetto alla débâcle di Copenhagen nel 2009, summit che avrebbe dovuto segnare una svolta nelle negoziazioni sui cambiamenti climatici. A qualche giorno dalla fine dei lavori sembra quindi lecito domandarsi se l’accordo di Parigi rappresenti, effettivamente, il miglior equilibrio possibile e cosa questo significhi per l’Europa.

Non è esagerato definire storico l’accordo di Parigi. Basti pensare che la quasi totalità dei Paesi del mondo (poco meno di 190) ha presentato impegni pubblici, i cosiddetti Intended nationally determined contributions (Indc), a favore della riduzione delle emissioni di gas serra, che acquisiscono carattere vincolante al momento della ratifica da parte del Paese che li ha presentati. Il meccanismo degli Indc porta di fatto al riconoscimento unanime del carattere globale della minaccia climatica. Pur riconoscendo le responsabilità storiche dei Paesi industrializzati, ciò potrebbe tradursi in un progressivo allineamento dei contributi dei Pvs.

Il punto qualificante dell’accordo finale è la fissazione dell’obiettivo della soglia massima di incremento della temperatura media mondiale rispetto ai livelli preindustriali, attraverso una formula well below 2°C, che impegna le parti a operare attivamente per un ulteriore abbassamento di tale soglia a 1,5°C. Se l’insieme dei contributi nazionali non è al momento sufficiente a garantire il rispetto di questo obiettivo (le stime parlano di una traiettoria di incremento della temperatura compresa tra 2,7 e 3,5°C), significativo appare il metodo previsto per rilanciare tali impegni. Un accordo, almeno in parte, vincolante una clausola di revisione quinquennale dei contributi e una maggiore trasparenza nel monitoraggio delle emissioni.

È stato inoltre evitato lo spettro della ratifica con la maggioranza dei due terzi da parte del Congresso Usa, che avrebbe messo a repentaglio il sostegno americano. All’interno del coordinamento europeo, anche l’Italia ha giocato un ruolo importante, ad esempio nel sostenere la necessità dei meccanismi di verifica e, soprattutto, della formula well below 2°C, come principio etico nei confronti dei Paesi più esposti agli effetti negativi dei cambiamenti climatici, come gli stati insulari.

L’impostazione data all’esercizio negoziale ha sicuramente incoraggiato la collaborazione non solo dei Paesi ma anche degli attori privati, in passato più restii a prendere impegni concreti di investimento verso un futuro low carbon. Il settore oil&gas si è impegnato attraverso la Oil and gas climate iniziative – di cui Eni è membro fondatore – indicando le priorità d’azione nella riduzione delle proprie emissioni industriali, nell’efficienza, nella promozione del gas naturale, nell’accesso all’energia, nella collaborazione in iniziative internazionali multi-stakeholder.

L’Europa esce dalla Cop21 rafforzata, dopo aver giocato un ruolo-chiave nella concretizzazione dell’accordo e aver raggiunto i propri obiettivi negoziali. Il successo è dovuto in larga parte all’eccellente presidenza francese, guidata da Laurent Fabius, e dall’attivismo del commissario europeo all’Energia e al clima Miguel Arias Cañete. Quest’ultimo, in particolare, ha facilitato la creazione di una High ambition coalition che ha raccolto in via trasversale moltissime adesioni anche fra i Paesi in via di sviluppo, superando la logica dei blocchi contrapposti rigidamente applicata sino a quel momento dal Gruppo dei 77.

Per quanto riguarda i contenuti, l’Europa difficilmente avrebbe potuto ottenere un miglior risultato. Ora l’Ue dovrà dimostrare di saper applicare la stessa efficacia e il giusto pragmatismo nell’attuazione della sua ambiziosa politica climatica al 2030, che prevede una riduzione del 40% delle emissioni rispetto al 1990 senza tuttavia penalizzare la competitività delle industrie europee.

Diversamente dall’accordo di Parigi, la politica Ue sul clima non ha ancora raggiunto il miglior equilibrio possibile. Gli ingenti investimenti, pubblici e privati, nelle energie rinnovabili degli ultimi sette anni sono stati accompagnati dal prosperare del carbone nel mix energetico. Ciò ha portato al noto paradosso – tutto europeo – di una politica che, nonostante gli incrementi in bolletta connessi allo sviluppo delle fonti rinnovabili, non ha intaccato il consumo del combustibile responsabile dell’80% delle emissioni nel settore elettrico.

Il risultato di Parigi e l’annuncio da parte del Regno Unito della chiusura di tutte le centrali a carbone entro il 2025 (subito seguito dall’Austria) riporta alla luce la necessità di ridare coerenza alla politica energetica degli Stati membri attraverso l’Unione dell’energia. Il sostegno alle fonti rinnovabili, sia in Europa sia nei Paesi del vicinato, deve essere accompagnato da una riduzione sensibile nell’uso del carbone a favore delle fonti rinnovabili stesse e del gas naturale, più pulito e flessibile. Tale risultato sarebbe ampiamente raggiungibile con l’introduzione di un tetto alle emissioni di carbonio delle centrali elettriche, il cosiddetto Emission performance standard (Eps), che darebbe un segnale chiaro agli investitori verso la decarbonizzazione e l’efficienza. Almeno per quanto riguarda il settore elettrico, l’Europa dovrà guardare all’America e al suo Clean power plan per prendere ispirazione.

L’accordo raggiunto a Parigi è probabilmente il miglior equilibrio possibile, poiché concilia l’ambizione dell’avanguardia europea con una maggiore consapevolezza delle sfide tecnologiche, economiche e sociali che ci attendono. La decarbonizzazione, specialmente nei Paesi in via di sviluppo, rimane un processo lungo. Gli scenari ci dicono che i combustibili fossili rappresenteranno ancora circa due terzi della nostra energia almeno fino al 2040. L’obiettivo ultimo è quindi la riduzione dei combustibili più inquinanti, non solo in Europa.

A tal fine, l’adozione di meccanismi di carbon pricing a livello globale, superando gli squilibri competitivi attuali, può favorire l’affermazione di un paradigma low carbon. L’Europa, grazie a una leadership lungimirante, ha superato la débâcle di Copenhagen. Ora è tempo di ridare forza e credibilità alla politica energetica europea.

Pasquale Salzano, direttore affari istituzionali ed executive vice president di Eni

(Testo pubblicato sull’ultimo numero della rivista Formiche)


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