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Tutte le fissazioni di Marco Revelli su Renzi e Berlusconi

Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo il commento di Gianfranco Morra apparso su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi

Tanti gli auguri per Natale a Matteo Renzi. Da amici e meno. Un noto politologo piemontese glieli aveva fatti all’inizio del mese, con un breve libro che riassume e rottama la sua attività di premier, un pamphlet spietato e graffiante, come sempre ciò che scrive Marco Revelli: «Dentro e contro. Quando il populismo è di governo» (Laterza, 154 pagine, 14 euro). L’altro giorno, commentando la «indecente» riforma della Rai sul «Fatto quotidiano», ha ripetuto gli auguri (e gli improperi) a Matteo, rappresentato da uno stanco fotomontaggio col fez e la camicia nera.

Già il libro era un anatema. Revelli aveva combattuto quelli che considera i modelli di Renzi, l’arrogante Bettino Craxi e il ciarlatano Silvio Berlusconi. Era convinto che «peggio di quei due non si può proprio».

Ora invece ne ha trovato un terzo ancora peggiore. Che, tuttavia, viene anche elogiato: nessuno, se non Renzi, questo «funambolo illusionista», poteva giocare con la politica, solo contro tutti, e, sino ad oggi, vincere tutte le sfide, insieme fare tanti danni e trasformarli in strumenti per mantenere il potere.

Per intendere l’animus del libro occorre ripercorrere le tappe, di lodevole coerenza e coriaceità, del cammino percorso da Revelli: da Potere Operaio a l’Altra Europa di Alexis Tsipras. Nell’epoca dei mutamenti politici interessati e continui, egli non ha mai cambiato ideologia. In ciò la sua onestà, che diventa però, come in quest’ultimo libretto, giudizio preconcetto incapace di capire il forte mutamento planetario, che ha messo in crisi il comunismo e l’intera sinistra. E, soprattutto, ha imposto un nuovo modo di fare politica. Gli improperi non interessano perché sono ovvi. Il lettore, non importa quali siano le sue idee, vorrebbe soprattutto sapere, da un così stimato politologo e da una editrice cosi illustre, qualcosa sui quasi due anni di governo: Renzi ha fatto riforme utili? quali sono stati i risultati accettabili e quali meno? Invece niente. Tutto si riduce alle due paroline del titolo: «Contro», non solo gli avversari da rottamare, ma tutto il sistema politico del nostro paese; e «dentro», questa rottamazione della democrazia egli non la fa da fuori, come Grillo e Salvini, ma dal governo.

Viene alla mente la Regina di Alice: «Va condannata, ma prima la sentenza, solo dopo le prove». Il libello sembra una ristampa anastatica di Marx: l’acutezza delle analisi socioeconomiche è sempre strumentale allo squillo di lotta rivoluzionaria. Purtroppo nell’epoca più postrivoluzionaria della storia. Quando nacque Revelli, nel 1947, alla rivoluzione molti ci credevano, oggi solo pochi sopravvissuti hanno conservato la fede. Dal Novecento al Duemila c’è stato un salto epocale: la globalizzazione economica, il predominio del social network, il fallimento delle ideologie, la crisi della democrazia rappresentativa, tanto nei rappresentanti (la peggiore classe politica) quanto nei rappresentati (protesta ed astensione elettorali), l’esaurimento dei partiti e dei sindacati, la mummificazione dei parlamenti.

Mutamenti così numerosi e profondi richiedevano un nuovo modo di fare politica, che tanti paesi europei hanno da tempo inventato. E proprio su ciò andava impostato il giudizio su Renzi, non sulla semantica demonizzatrice da direzione del Pcus. Si può anche accettare la tesi di Revelli che Renzi lo sfacelo non l’ha inventato, ma abilmente strumentalizzato per crescere decisionismo e potere. E si può anche ammettere che non sono mancati in lui limiti e anche errori. Ma non si può negare che il suo tentativo procede nel senso richiesto oggi dalla maggioranza dei cittadini, anche di quelli che vedrebbero un altro al suo posto: rafforzamento dell’esecutivo, semplificazione del parlamento e della sua attività, efficienza della amministrazione, modernizzazione della giustizia, rapporto diretto con l’elettorato, partiti leggeri, sindacalismo della partecipazione non del conflitto, sistema elettorale capace di assicurare governabilità.

L’errore più grossolano dell’esile saggio di Revelli è l’uso del termine «populismo». Ch’egli attribuisce appropriatamente a tanti movimenti nati a cavallo dei due secoli, che contestano il potere da «fuori». Renzi, invece, sarebbe un populista, l’unico, che se ne serve da «dentro» e «dall’alto», un «populista di governo». Occorrevano invece delle distinzioni, di cui un intellettuale organico non è capace.

Il populismo, oggi, mentre anima espressamente alcuni movimenti, è un metodo presente più o meno in tutti i partiti europei, anche nel Pd di Renzi, dove però si mostra soprattutto una tattica del web, non una strategia politica. Come definire populista un «animale politico» che, con autonomia e orgoglio nazionale, difende la permanenza dell’Italia in una diversa Ue e nell’Euro, propone una economia mista, cioè sociale di mercato, avanza un progetto moderato di centro sinistra, cioè liberaldemocratico?

Ma nel periodo natalizio non si può essere pessimisti. Non lo è neppure Revelli: «Non resta che sperare (a prescindere)». Sperare nelle valigie, che prima o poi anche Matteo dovrà fare. Quando la gente si accorgerà dei suoi «giochi di prestigio» e della sua «danza sull’abisso». E così sia.

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