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Ecco come Cgil, Cisl e Uil (non) vogliono riformare il contratto nazionale

Hanno lavorato per mesi. Ma avrebbero potuto risparmiarsi la fatica e la spremitura di meningi, perché il documento sulle relazioni industriali predisposto dai negoziatori di Cgil, Cisl e Uil (che sarà approvato dagli organi dirigenti in queste ore) è non solo palesemente difensivo e “fuori mercato” (nel senso che non sarà preso in considerazione da nessuno), ma persino antistorico. Il telaio della proposta resta ancorato ad un modello tolemaico della struttura della contrattazione, incentrato sul contratto nazionale di categoria. “Il CCNL – sta scritto in bella vista – deve mantenere la sua funzione di primaria fonte normativa e di centro regolatore dei rapporti di lavoro, comune per tutti i lavoratori del settore di riferimento, rafforzato nel suo ruolo di governance delle relazioni industriali”. Fin qui nulla di nuovo, se non fosse per due “dettagli” (dove si va a nascondere sempre il Maligno) che non possono essere sottovalutati, anche perché inediti.

Innanzi tutto, cambia la mission del contratto nazionale, che non può più essere, secondo i sindacati, quella individuata nello storico Protocollo del 1993. Per quanto distratti, i gruppi dirigenti sindacali si sono accorti che non ha più senso attestarsi sulla salvaguardia del potere di acquisto delle retribuzioni in una fase in cui l’inflazione occorre produrla artificialmente, come la neve sulle piste da sci. Al punto che, al tavolo dei rinnovi, i sindacati si sono visti chiedere la restituzione degli aumenti concessi in precedenza nella prospettiva di un tasso di inflazione rimasto solo teorico.

Ecco allora, l’alzata di ingegno: “Il contratto nazionale, con la determinazione delle retribuzioni, dovrà continuare – si legge – a svolgere un ruolo di regolatore salariale, uscendo dalla sola logica della salvaguardia del potere d’acquisto, che nasceva da un’esigenza di contenimento salariale in anni di alti tassi di inflazione, per assumere nuova responsabilità e ruolo. Le dinamiche salariali – prosegue il documento – dovranno, così, contribuire all’espansione della domanda interna, a contrastare le pressioni deflattive sull’economia nazionale, a stimolare la competitività delle imprese e la loro capacità di creare lavoro stabile e qualificato, nonché a valorizzare, attraverso una equa remunerazione, l’apporto individuale e collettivo delle lavoratrici e dei lavoratori”.

In sostanza, attraverso la stipula dei contratti nazionali dovrà essere aumentato il potere d’ acquisto, allo scopo di rilanciare la domanda interna e contrastare le spinte deflazionistiche. Se così deve essere, secondo Cgil, Cisl e Uil, finiscono in archivio tutti i vecchi indicatori (IPCA compresa) e ci incammina sulla via dell’ignoto: “A tal fine, il salario regolato dal contratto nazionale, sarà determinato – ecco la svolta – sulla base di opportuni criteri guida ed indicatori, che tengano conto: a) delle dinamiche macroeconomiche, non solo riferite all’inflazione, in particolare per quanto riguarda il valore reale dei minimi salariali valevoli per tutti i dipendenti; b) degli indicatori di crescita economica e degli andamenti settoriali, anche attraverso misure variabili, le cui modalità di erogazione e di consolidamento nell’ambito della vigenza contrattuale saranno definiti dai specifici Ccnl di categoria, anche in relazione allo sviluppo del secondo livello di contrattazione”.

Così, la negoziazione del salario, nel contratto nazionale, diventa addirittura uno strumento di politica economia, che prende a riferimento indicatori generici e vaghi come gli “andamenti settoriali” per loro natura inadeguati – ammesso e non concesso che sia possibile individuarli – rispetto alle esigenze delle imprese. Ma il cerchio si chiude con un’altra gemma. Con settant’anni di ritardo Cgil, Cisl e Uil chiedono l’attuazione dell’articolo 39 della Costituzione allo scopo di “dribblare” l’insidia del salario minimo legale. “L’esigibilità universale dei minimi salariali definiti dai Ccnl, in alternativa all’ipotesi del salario minimo legale, va sancita attraverso un intervento legislativo di sostegno, che definisca l’erga omnes dei Ccnl, dando attuazione a quanto previsto dall’Art. 39 della Costituzione’’.

In questo modo, non solo il contratto nazionale continuerebbe ad essere il dominus del sistema (alla faccia dell’esigenza di estendere a rafforzare la contrattazione decentrata per incrementare la produttività e la qualità del lavoro), ma assumerebbe la medesima efficacia vincolante della legge. E’ questa una scelta non solo sbagliata (ci meravigliamo del cambiamento di posizione della Cisl su questa problematica), ma – come l’abbiamo definita prima – persino antistorica. Sull’impianto complessivo dell’articolo 39, a suo tempo, rimase molta polvere del regime corporativo. Il legislatore costituzionale, cioè, essendosi trovato a gestire la transizione dal regime fascista alla democrazia ed avendo a che fare, in materia di lavoro, con un impianto consolidato, fatto di norme concretamente applicate nelle aziende, si limitò, in larga misura, riformulare l’ordinamento previgente alla luce dei sacri principi della libertà e della democrazia e ad immaginarne (non era facile per quei tempi) una concreta operatività ispirata al pluralismo. Ma è rimasta visibile la sua preoccupazione di rivisitare in altre forme le questioni che il modello corporativo – a suo modo – aveva affrontato e risolto.

Durante il fascismo i sindacati erano praticamente una branca della pubblica amministrazione? Nell’Italia democratica riprendevano piena libertà, ma continuava a sussistere il problema di conferire loro, attraverso la registrazione, una personalità giuridica (ancorché) di diritto privato, sottoposta al solo requisito di uno statuto interno a base democratica, al fine di definirne una precisa identità, secondo quanto dettato dalla legge ordinaria che avrebbe dovuto applicare la norma costituzionale. L’ambito della categoria, come riferimento della contrattazione, rimaneva centrale come lo era stato nel precedente contesto in forza di un pregiudizio ideologico divenuto norma (il corporativismo, appunto, come forma di organizzazione dello Stato). Infine, il legislatore costituzionale era ossessionato dall’esigenza di individuare un meccanismo che, persino in un contesto di possibile pluralismo sindacale, consentisse di conferire un’efficacia erga omnes ai contratti collettivi, altrimenti applicabili – secondo i principi generali del diritto comune – soltanto agli iscritti alle organizzazioni stipulanti. In buona sostanza, per quanto riguarda l’ordinamento sindacale il fascismo aveva promosso ed orientato un processo evolutivo, già in corso dopo la conclusione della Grande Guerra, ma il cui sbocco era ancora incerto.

Il legislatore costituzionale, dal canto suo, aveva confermato, in alcuni suoi aspetti, quell’ordinamento – di cui il contratto nazionale di categoria era l’architrave – pur andando ‘’a risciacquare in Arno’’ i panni della democrazia anche per il sindacato (il che non era un cambiamento da poco). La norma dell’articolo 39 era chiara e ben congeniata; tuttavia, non solo non ha mai avuto applicazione, ma in Italia si è sviluppato, nel tempo, un diverso sistema di relazioni sindacali solido e strutturato che, con quella impostazione non ha niente da spartire. Vogliamo fargli infilare quelle brache settant’anni dopo?

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