Chi chi vuole accelerare, chi non si oppone e chi invece frena. Oggetto: favorire, o meno, la diffusione della finanza islamica in Italia. Sono in tanti a chiedere da diversi anni una maggiore armonizzazione della cosiddetta finanza islamica, ovvero l’emissione di titoli e prestiti perfettamente sharia compliant, rispettosi cioè dei dettami del Corano. Un universo da 2.000 miliardi di dollari e 138 miliardi in termini di emissioni di sukuk, l’equivalente musulmano dell’obbligazione. Eppure, in Italia, manca qualcosa.
LA LEGGE (CHE ANCORA NON C’E’)
Magari una legge che ammorbidisca le regole d’ingaggio per gli investimenti provenienti dall’Oriente, dal momento che ancora oggi manca in Italia un preciso quadro di regole fiscali in grado di favorire l’ingresso di capitali e fondi sovrani islamici. A dicembre il presidente della commissione finanze della Camera, Maurizio Bernardo, ha annunciato per quest’anno l’avvio di una discussione per rendere più attrattiva l’Italia agi occhi degli sceicchi, con tanto di costituzione di apposito gruppo di lavoro. Ma la strada, dicono fonti ben informate a Formiche.net, è ancora lunga. Perchè?
COSA (E PERCHE’) FRENA LA FINANZA ISLAMICA
Ci sono alcuni fattori che impediscono al momento un’accelerazione del dossier finanza islamica. Uno di ordine pratico, l’altro decisamente più politico. Il primo ostacolo son le stesse banche. In tutte le banche europee, per esempio, applicano tassi di interesse sui prestiti concessi. Quelle islamiche invece, non prevedono alcuna forma di commissione su prestiti e mutui, ne tanto meno sui sukuk. Altra questione, non meno importante, la condivisione dei rischi e dei profitti. Nel mondo islamico il consiglio di amministrazione di un istituto condivide i rischi e profitti con la clientela, che può nel secondo caso partecipare attivamente agli utili di una banca. Ancora, la finanza islamica non prevede il cosiddetto deposito a garanzia, con cui le banche italiane garantiscono per esempio i depositanti fino a 100.000 euro in caso di dissesto bancario.
SE ALLA CAMERA SI NICCHIA
Fin qui le questioni di ordine pratico. Secondo quanto risulta a Formiche.net, c’è poi un discorso di opinione pubblica. Aprire le porte ai capitali d’oriente in piena emergenza terrorismo e immigrazione sembrerebbe ad alcuni esponenti della commissione Finanze una sorta di forzatura, dal momento che gran parte delle organizzazioni terroriste pare si finanzi proprio attraverso una fitta rete di intermediari finanziari islamici. Non è una contrarietà assoluta, viene spiegato dalle fonti, casomai non una priorità del momento. Il tema, resta di rimanere in agenda ancora una volta insomma, senza subire il dovuto sprint. Pensare che gli appelli per una regolamentazione più morbida verso la finanza islamica si perdono nella notte dei tempi.
L’ABI, UN APPELLO DI SEI ANNI FA
Era il 2010 quando l’Abi chiese a governo e istituzioni di adoperarsi per una maggiore apertura ai capitali sharia compliant. “È importante”, sottolineò allora l’associazione bancaria in occasione di un Forum internazionale tenutosi a Roma, “non restare indietro e modificare il nostro impianto normativo, civilistico e fiscale, per favorire lo sviluppo della finanza islamica in Italia, aprendo la strada a nuove opportunità per gli intermediari e intercettando la grande liquidità dei paesi arabi”. Parole datate, ma in un certo senso anche molto attuali, dal momento che all’inizio del 2016, della legge in questione non c’è traccia. Eppure, in tempi di scarsa fiducia verso il sistema bancario a causa dello scandalo salva-banche, favorire la nascita di enti creditizi islamici potrebbe rivelarsi una mossa azzeccata, dal momento che nella finanza islamica è severamente proibita la vendita di prodotti o strumenti finanziari rischiosi o addirittura tossici.
IL GOVERNO (BERLUSCONI) SEMBRAVA CREDERCI
L’appello dell’Abi non rimase inascoltato, anzi fu colto al balzo dall’allora viceministro dello Sviluppo Economico del governo Berlusconi, Adolfo Urso. “Siamo molto in ritardo rispetto agli altri paesi nell’attrazione della finanza islamica, se pensiamo che le banche islamiche nel mondo sono 350 di cui 26 in Europa e nessuna in Italia. Per questo “stiamo preparando il terreno affinché la finanza islamica possa radicarsi nel nostro Paese, anche attraverso accordi con le istituzioni finanziarie dei Paesi islamici”, aveva sottolineato Urso in occasione dello stesso evento promosso dall’Abi. Poi, sulle nuove regole è calato il sipario. Fino a un nuovo appello.
ECCO COME BANKITALIA HA RIACCESO LE SPERANZE
La nuova sferzata arrivò tre anni dopo, nell’aprile del 2013, quando il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, riprese improvvisamente in mano il dossier, dichiarando apertamente di cogliere “l’opportunità di attrarre capitali stranieri e l’intensità di legami commerciali e finanziari con la sponda Sud del Mediterraneo. E’ sempre più importante, per il nostro Paese e il suo sistema finanziario, essere preparato alla conoscenza e agli strumenti operativi per interagire con quei sistemi che obbediscono ai principi” della finanza islamica. Dunque, meglio “avere un solido bagaglio di conoscenza e gli strumenti operativi per interagire con sistemi che rispettino i principi della shari’ah”.
UN TIFOSO D’ECCEZIONE, IL VATICANO
Tra i supporters della finanza islamica si annovera poi anche il Vaticano, sceso apertamente a sostegno del modello bancario islamico, seppur anni addietro. “I principi etici che sono alla base della finanza islamica potrebbero riportare le banche più vicine alla clientela e al vero spirito di servizio che dovrebbe contraddistinguere ogni servizio bancario”, scriveva nel 2009 l’Osservatore Romano. “Il modello islamico”, proseguiva il quotidiano della Santa Sede, proibisce “l’interesse caricato da chi presta denaro i soldi sono mezzi o strumento produttivo ed è questo il principio applicato nelle obbligazioni cosiddette sukuk”.