Il New York Times ha uno scoop: il rilascio dei prigionieri americani e lo scambio con gli iraniani, non è stato semplicemente un aspetto laterale del sollevamento delle sanzioni, un frutto della nuova linea dei rapporti tra Washington e Teheran, ma è il risultato finale di una lunga serie di trattative. Un back-channel (ossia: incontri segreti) autorizzato da Barack Obama fin dall’ottobre del 2014 per non far marcire in una galera iraniana i propri cittadini.
Quattordici mesi di negoziati nell’ombra, tenuti con una cadenza mensile, tra un pool di diplomatici americani guidati da un funzionario di alto livello del dipartimento di Stato, Brett McGurk, attualmente inviato della Casa Bianca alla Coalizione internazionale che combatte lo Stato islamico, e le controparti iraniane, raccontati ai giornalista David Sanger e Peter Baker (pezzi grossi del team del NYTimes) da fonti interne all’Amministrazione americana.
Ma mentre si procedeva con garbo e perizia a definire i dettagli dell’accordo sul nucleare di Teheran, sul tavolo segreto per il rilascio dei prigionieri l’atmosfera era più rigida. Le fonti del Nyt dicono che davanti a sé McGurk ha trovato una controparte che a malapena parlava inglese, tutt’altro rispetto a quella guidata dall’ex studente di Stanford University (California) Jawad Zarif. A trattare il rilascio dei detenuti, c’erano «uomini dell’apparato di sicurezza», probabilmente messi inviati dai Pasdaran, il lato duro e crudo del potere rivoluzionario iraniano più conservatore.
Ginevra faceva da nido per le trattative: gli americani si sono affidati anche agli svizzeri per negoziare. In una delle ultime riunioni, Teheran aveva messo sul piatto il rilascio di circa 40 cittadini iraniani arrestati in America e altre nazioni occidentali, alcuni avevano accuse pesanti legate al supporto a gruppi terroristici: senza lo scambio sarebbe saltato tutto dicevano i falchi iraniani. La Casa Bianca, racconta il giornale americano, accusò il colpo ma tornò indietro con una consapevolezza: c’era una linea percorribile, legata allo scambio. Obama però non avrebbe mai concesso il ritorno in patria di elementi che avevano accuse pesanti, per questo Washington decise di rilanciare con i sette iraniani che sono stati poi liberati il weekend scorso, i quali avevano invece commesso soltanto reati economici, legati alle violazioni delle sanzioni.
Le fonti hanno raccontato al Nyt che d’un tratto, senza che sul calendario si potesse segnare una data precisa, l’atteggiamento iraniano cambiò, si mostravano più aperti e collaborativi, fino al raggiungimento dei termini dell’intesa.
Non tutto è filato via liscio, comunque: fino a sabato mattina scorso, il giorno del rilascio, l’Iran non voleva far tornare negli Stati Uniti la moglie e la madre di Jason Rezaian, il giornalista del Washington Post ─ una dei detenuti su cui gli americani avevano intavolato le trattative. Pare sia stata una serie di serrate conversazioni telefoniche tra John Kerry e il suo omologo ministro degli Esteri iraniano Zarif a sbloccare la situazione mentre l’areo di Rezaian era in fase di rollio sulla pista.
GLI STATI UNITI HANNO PAGATO GIÀ 1.3 MLD
Gli Stati Uniti hanno risolto anche un altro contenzioso aperto con l’Iran: si tratta dei 400 milioni di dollari di materiale bellico pagati da Teheran ai tempi dello Scià di Persia e mai consegnati dagli americani a causa delle sanzioni. Il New York Times, in un altro articolo, scrive che Washington ha restituito i soldi pagando 1.3 miliardi di interessi maturati nel corso dei 37 anni di chiusura dei rapporti.
LE NUOVE SANZIONI
Domenica, il giorno dopo l’annuncio della revoca del grosso delle sanzioni, la Casa Bianca ha fatto sapere di averne applicate di nuove, ma non si tratta di un passo indietro o di un ritorno al passato. Le nuove sanzioni sono rivolte per lo più a individui e alcune piccole imprese accusate della spedizione di tecnologie fondamentali in Iran, tra cui la fibra di carbonio per i missili. Poiché le sanzioni sono focalizzati su individui e imprese, la maggior parte degli iraniani non le sentiranno: un provvedimento limitato, che gli Stati Uniti hanno deciso di applicare davanti alle denunce dell’Onu di violazione delle concessioni “pre-deal” a seguito di due test missilistici avvenuti ad ottobre e novembre scorsi su un vettore in grado di trasportare armamenti nucleari.
I GUARDIANI CASSANO I MODERATI
In Iran, la risposta al nuovo futuro riqualificato legato al superamento delle sanzioni, è controversa: non si festeggia in strada, ma è chiaro che c’è una larga fetta di popolazione che intravede (e vuole, spinge per) la possibilità di un futuro meno rigido e più prospero. Dall’altro, i conservatori serrano i ranghi: l’iranologo dell’International Crisi Group, Ali Vaez, intervistato da Formiche.net aveva spiegato come le elezioni che si terranno il 26 febbraio per eleggere il Majlis, il parlamento (e contemporaneamente quelle per l’Assemblea degli Esperti, organo del potere teocratico), siano fondamentali per «rimodellare il corso della repubblica islamica. Gli inizi non sono positivi: il Consiglio dei Guardiani della rivoluzione, autorità di 12 elementi eletta per metà dalla Guida Suprema e per metà dai vertici della magistratura (che a loro volta sono eletti dalla Guida), che ha il compito di vagliare le candidature presentate a dicembre del 2015, ha cassato la gran parte dei candidati appartenenti alle aree riformiste e moderate: su tremila candidati, soltanto 30 hanno passato il setaccio. Elementi che non potranno essere eletti.