Il pranzo tra Angela Merkel e Matteo Renzi, tra ravioli italiani e gnocchi tedeschi, è servito ad allentare la tensione? Lo vedremo solo nelle prossime settimane e solo sulle cose concrete.
A giudicare dalle parole in conferenza stampa, l’incontro non è stato affatto facile. Renzi è “un osso duro, un giovane arrabbiato”, come ha scritto il settimanale liberale Die Zeit. E’ vero, ma raccoglie la rabbia che si sente in giro, tra il suo elettorato e ancor più tra quello di destra, nei confronti della commissione e della Germania che ne rappresenta l’azionista di maggioranza e non il paese egemone. Enzo Moavero Milanesi ieri sul Corriere della Sera ricordava come raramente ci dono stati tanti dossier aperti sul tavolo della Commissione europea nei confronti di un singolo Paese su questioni tanto importanti: dalla politica fiscale alla politica industriale, dalla sicurezza ai rifugiati e persino sui matrimoni gay. Non manca occasione, nemmeno la più futile, per bacchettare l’Italia. Se lo dice un eurofilo, grande esperto di Europa come Moavero, c’è da crederci. Ed è evidente che non sia un caso.
Bisogna allora pensare in modo trasversale, gettare lo sguardo in avanti e di lato. Tutto questo accade perché la vecchia Unione inclusiva è ormai entrata in una crisi forse irreversibile ed è emersa come via d’uscita la dottrina Schäuble che risale al lontano 1994: una Ue a cerchi concentrici, con un nocciolo duro che condivida valori, istituzioni, linee politiche, sistema economico e difesa militare. In questa Kerneuropa in origine non era prevista l’Italia, la quale allora fece fuoco e fiamme e fu inserita. Oggi che quel progetto viene tirato fuori dal cassetto, sta succedendo lo stesso, cioè rispunta il tentativo di tener fuori Roma dall’asse con Berlino nel quale resta ben inserita Parigi, nonostante Hollande, con i tre satelliti del Benelux.
Se è così, allora la chiave del pranzo è in quel che ha scritto il New York Times: “Renzi spinge per un posto a capotavola nel tavolo del potere europeo”. Insomma un direttorio a tre e non più a due. Ci riuscirà? Ha avuto qualche incoraggiamento dalla Cancelliera la quale non è tra i tedeschi che vogliono tenere fuori l’Italia? Non lo sappiamo, forse è presto per dirlo. Dalle parole più o meno ufficiali abbiamo capito questo:
1- L’enfasi sui valori condivisi e sulla necessità di più Europa, le sottolineature reciproche su quel tanto che i due Paesi condividono fin dagli albori del processo di integrazione europea, il populismo come nemico comune, tutto ciò (retorica a parte) fa ben sperare.
2 – La Merkel ha riconosciuto che l’Italia sta facendo le riforme giuste, ma si augura che Renzi abbia la mano buona questa volta precisando che “il successo di queste riforme sarà un contributo importante per l’Italia e l’Europa”. Dunque, tiene ancora la guardia alta, aspetta di vedere se le promesse verranno davvero mantenute.
3- Renzi accetta di partecipare al contributo finanziario nei confronti della Turchia (tre miliardi di euro) per tenere a bada l’onda dei profughi. Ma si è cautelato dicendo di aspettare dalla commissione Ue risposte sulla possibilità di detrarre quei fondi dal vincolo di bilancio.
4- La Merkel ha glissato sulla flessibilità nella regola del deficit pubblico. “L’interpretazione dei criteri spetta alla Commissione”, ha detto e lei non ci vuol mettere becco. Linea pilatesca? Piuttosto si può dire che non ha fatto concessioni, scaricando su Juncker e i suoi la responsabilità dei futuri pasticci.
5- Su Schengen, al di là della petizione di principio, non sono stati fatti passi avanti concreti. Italia e Germania sono per salvarlo, ma nessuno dei due governi sa come né se sarà davvero possibile.
6- Resta la divaricazione d’interessi sul Nord Stream, il gasdotto con la Russia che la Germania vuole costruire mentre è stato bloccato il South Stream del quale faceva parte l’Italia. Ma la trattativa resta aperta e dipende dalle contropartite reciproche (ammesso che davvero Roma abbia bisogno di più gas e di legarsi ancor più a Putin).
Dunque, un appuntamento deludente? Forse è stato caricato di troppo aspettative. Per quel che riguarda il tavolo del potere del quale parla il New York Times, bisognerebbe rispondere con la famosa canzoncina che cantavano i fucilieri di Sua Maestà britannica durante la prima guerra mondiale: “It’s a long way to Tipperary”.
Stefano Cingolani