Sembra un paradosso, ma non lo è. O lo è solo in parte. Proprio nel momento cui anche Matteo Renzi è entrato in rotta di collisione con Bruxelles e Berlino reclamando l’uscita da una politica d’austerità ormai fine a se stessa, visto che tutto ha prodotto fuorché una vera crescita, è esplosa, o riesplosa, la clamorosa vicenda delle pressioni internazionali, condite d’intercettazioni di marca americana, che travolsero nell’autunno del 2011 l’ultimo governo di Silvio Berlusconi.
Chi volesse ritentare quell’avventura per tornare a condizionare la politica italiana non può più giocare sull’elemento della sorpresa. Non a caso il presidente del Consiglio felicemente e giovanilmente in carica, esortato di continuo ad abbassare i toni e a non “isolarsi” in Europa alla maniera di Berlusconi, si è mosso rapidamente per non lasciare scoperto il suo pur non diretto predecessore.
Anche se è stato solo l’ambasciatore americano a ricevere un formale invito a chiarire le cose al Ministero degli Esteri d’Italia, e a garantire che non si ripetano, Renzi ha dato l’impressione di volere con ciò ammonire gli alleati e soci europei a non riprovarci. D’altronde, cinque anni fa gli americani non andarono oltre le pur sgradevoli intercettazioni, rifiutandosi per il resto di “sporcarsi le mani” contro Berlusconi, secondo gli ordini personali del presidente Barak Obama rivelati dall’allora suo ministro del Tesoro. Il triangolo dell’assedio all’Italia fu tutto europeo: fra Parigi, Bruxelles e Berlino. Dove si voleva brindare, come diceva il presidente francese Nicolas Sarkozy, con lo champagne delle banche italiane.
Oltre a spianargli la strada di Palazzo Chigi, dopo gli interregni di Mario Monti e di Enrico Letta, entrambi sostenuti per un bel po’ anche dall’allora Cavaliere, Berlusconi si trova ora nella singolare circostanza di proteggere Renzi col rinnovato clamore sui tempi e sulle modalità della propria caduta. Solo il capogruppo forzista alla Camera, Renato Brunetta, mostra di non esserne ancora consapevole, visto che, pur reclamando un’inchiesta parlamentare sull’autunno politico del 2011, condivide il pressing di Bruxelles e di Berlino su Renzi pur di vederlo cadere, per ripicca.
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Alain Friedman, il giornalista americano che prima e più di tutti ha indagato sull’orribile 2011 italiano intervistandone protagonisti e attori, al di là e al di qua delle Alpi e dell’Atlantico, non condivide il termine “complotto” usato da Berlusconi. Che peraltro prestò imprudentemente il fianco più volte a chi se ne voleva liberare per ragioni ben diverse dalle sue conclamate feste private, e guai giudiziari annessi. Friedman preferisce parlare di “intrigo”, internazionale e interno. Ma l’intrigo basta e avanza per darne il giudizio negativo che merita. E per non augurarlo ad altri, compreso Renzi, per quanti errori possa avere commesso pure lui, e potrà ancora compierne per una certa bulimia di potere che potrebbe francamente risparmiarsi, visto anche il notevole vantaggio di cui già gode per lo stato di crisi degli avversari, esterni e interni al suo partito, e la conseguente mancanza di alternative.
La stessa riforma costituzionale portata da Renzi in dirittura d’arrivo potrebbe rischiare di essere danneggiata, nel referendum confermativo d’autunno, da quell’impressione di bulimia di potere, appunto, che va diffondendosi attorno al presidente fiorentino del Consiglio.
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Complotto o intrigo che sia stato quello del 2011, una cosa che continuo a non condividere delle reazioni di Berlusconi, e non solo di Brunetta, pitoni e pitonesse, è il ruolo di congiurato attribuito all’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Al quale si rimprovera, fra l’altro, l’incoraggiamento a Gianfranco Fini a rompere l’alleanza di governo con Berlusconi già nel 2010. Un incoraggiamento di cui l’allora presidente della Camera potrebbe essersi vantato con gli amici per invogliarli a seguirlo nel suicidio del centrodestra, ma che fu oggettivamente contraddetto dall’intervento, esso sì inusuale per un capo dello Stato, perché la mozione di sfiducia promossa da Fini e amici non fosse discussa prima dell’approvazione della legge finanziaria. Il rinvio si rivelò funzionale solo alla bocciatura clamorosa di quella mozione, e alla sopravvivenza del governo berlusconiano per quasi un altro anno ancora.
Ma a contraddire Berlusconi fu la decisione da lui stesso presa non solo e non tanto di sostenere poi Monti a Palazzo Chigi, preferendolo ad elezioni anticipate evidentemente troppo temute in quel momento, quanto di promuovere nel 2013 la rielezione di Napolitano al Quirinale: un inedito assoluto nei quasi settant’anni di storia della Repubblica. La conferma di un complottardo avrebbe disonorato per primo il suo più grande elettore, cioè Berlusconi.