Domenica, lo stesso giorno di una strage compiuta da una attentato firmato IS a Baghdad, che ha prodotto 70 morti e un centinaio di feriti in un distretto sciita, sono state diffuse dai sempre attivi media dello Stato islamico alcune foto che riprendono una campagna di vaccinazione contro la poliomielite attivata dai baghdadisti a Tikrit, sempre in Iraq. Sono immagini importanti perché danno uno spaccato chiaro del gruppo, che molto spesso non viene mostrato perché forse più spaventoso e preoccupante degli attentati e degli assalti militari, delle esecuzioni e delle rigide applicazioni del jihad. L’IS è uno Stato de facto.
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— Terrormonitor.org (@Terror_Monitor) 28 febbraio 2016
DUE MONDI DISTANTI
Se a noi occidentali ci è difficile comprendere l’apparato ideologico che sorregge il Califfato, fatto di regole medioevali (come le amputazioni ai ladri, la lapidazione delle adultere, la crocifissione delle spie, e via dicendo) e di proselitismo e indottrinamento religioso (anacronistico nell’Occidente secolarizzato), ci è ancora più complicato comprendere che questi aspetti sono pezzi di un mondo che non è quello conosciuto del classico gruppo terroristico.
DEFINIZIONI UTILI
Tutti i politici occidentali concordano nel dire che lo Stato islamico però non è uno stato, ma un’organizzazione terroristica. È un approccio ovvio e comprensibile, perché non si può dare legittimità a un’entità così brutale e spietata. Da questo viene anche l’uso dell’acronimo Isis, ossia Islamic State in Syria and Iraq, utilizzato e accettato comunemente come semplificazione giornalistica, ma che è di per sé inesatto, scaduto, perché dal giorno della proclamazione del Califfato (il 29 giugno del 2014, giorno dell’unica apparizione pubblica del Califfo Baghdadi, a Mosul, in Iraq) si dovrebbe parlare soltanto di Stato islamico, senza nessi territoriali. È stato però il sacro tempio del giornalismo mondiale, il New York Times, a decidere che non si doveva usare (parlare di) IS per evitare che quella legittimazione statuale passasse anche nella cultura comune: chiamarlo con un acronimo lo inquadra più facilmente soltanto come gruppo terroristico. Tuttavia l’organizzazione è molto di più.
OLTRE AL TERRORISMO
L’Isis non è al Qaeda, che opera nascosta tra le grotte del Waziristan (al confine tribale e montagnoso tra Afghanistan e Pakistan), ma è uno stato a tutti gli effetti. Il Califfato amministra un territorio ampio, all’interno del quale leader civili e comandanti militari (che nell’ottica imperialista califfale hanno un ruolo di primo piano) si muovono liberamente, senza la necessità di nascondersi. Anzi, proprio il fatto che girino tra le vie delle città controllate è un dato che l’IS ci tiene a sottolineare, una sorta di avvicinamento del gruppo alla gente: partecipano a riunioni, guidano i sermoni, incontrano le persone, creano consenso. Anche per questo spesso capita che i velivoli da sorveglianza che girano sopra le loro teste li individuino e li mettano al centro del bersaglio di qualche bomba intelligente. (Nota: il gruppo ha un rapporto quasi paranoico con la sicurezza, dunque quando i capi più in alto in grado nella catena di comando si espongono in pubblico vengono prese precauzioni simili a quelle che accompagnano i leader mondiali: spente le antenne di ripetizione dei segnali cellulari, folta disposizione di agenti di sicurezza, preparazione del campo con attività di intelligence. Una delle tante dimostrazione che stiamo parlando, appunto, della stessa gestione dei problemi di uno stato normale).
LE STATEHOOD
Il Califfato ha un’economia propria, basata essenzialmente sul traffico di petrolio, che sfrutta un’attività di contrabbando già impostata sul territorio siro-iracheno da decenni e il ricatto verso il governo siriano (e in minor parte iracheno): lo Stato islamico controlla i territori dove sono presenti i campi di produzione di gas naturale e petrolio, beni necessari per mandare avanti le attività di Siria e Iraq (di Siria e Iraq intesi nel complesso di quello che riguarda le attività che richiedono energia per funzionare: gli ospedali, le scuole, le case, etc). E così i governi di Damasco e Baghdad – che non hanno la competenza militare per sradicare l’IS – scendono a compromessi pur di non restare senza il combustibile che mantiene attivo il flusso di corrente elettrica. Ma il settore energetico non è l’unico su cui si imposta l’economia del Califfato, che come un qualunque altro Stato ha vari asset da sfruttare. Sono asset illegali (per esempio: il riscatto per gli ostaggi, le tassazioni sulle popolazioni e in particolare sulle minoranze, i furti di denari dalle aree razziate), una mondo completamente diverso dai finanziamenti che arrivano ad un normale gruppo terroristico. Ma la differenza maggiore sta nel fatto che l’obiettivo dello Stato islamico è trarre introiti per poter mantenere attive le proprie statehood, ossia le statualità, e cioè quell’insieme di cose che sono normalmente “di pertinenza di uno Stato, inteso come ente politico-giuridico-amministrativo” (definizione Treccani). Nello Stato islamico non c’è politica intesa come dialettica tra partiti, ovviamente, e l’entità giuridica che guida le istituzioni (le province, i governatori, i consigli) è la sharia, la legge coranica: ma dal punto di vista amministrativo sono gli uomini del Califfato a provvedere alle strutture di insegnamento, alle tassazioni, al lavoro, alla difesa, alla sicurezza, alla costruzione e manutenzione delle opere infrastrutturali, all’assistenza medica in tutta quell’area grande come il Belgio che controllano e nelle province distaccate. Territori dove lo stato legittimato non c’è più e i baghdadisti gli si sono sostituiti. Un esempio: il logo del sistema sanitario è stato praticamente copiato dal National Health Service inglese, NHS che a Raqqa invece si chiama ISHS, ossia Islamic State Health Service, probabilmente nel tentativo di imitare e ricordare l’istituto britannico simbolo di solidità e farsi questa virtù propria.
SIMBOLI
Nella continua predicazione da parte degli uomini dello Stato islamico, che è supportata da apparati media di alto livello e da un incessante presenza sul territorio, alla pubblicazione delle foto durante la vaccinazione va data particolare attenzione. Lo Stato islamico di fatto condanna queste profilassi mediche perché non in linea con i precetti della fede, ma nella pragmatica della situazione (la polio colpisce in diverse aree del mondo percentuali in continua crescita di bambini sotto i cinque anni anche per colpa dell’opposizione che determinate culture fanno alle vaccinazioni) scelgono di usare i vaccini, trovando escamotage ideologici per sostenere le proprie decisioni. È una linea politica chiara, che tende a dimostrare che l’organizzazione guidata da Abu Bakr al Baghdadi è molto interessata ai problemi della propria popolazione. Per confronto, non più tardi che a metà gennaio, un kamikaze pakistano affiliato ai talebani (alleati di al Qaeda) s’è fatto saltare in aria a Quetta, davanti ad un bus che trasportava forze di polizia che avrebbero dovuto fornire sicurezza ad un centro medico anti-polio dove si sarebbero andati a vaccinare bambini provenienti dal Baluchistan.
Quello dell’IS è invece un messaggio propagandistico (oltre che un atto di utilità per evitare di sostenere più dispendiose cure mediche), perché i capi dell’IS sanno che per amministrare serve bastone e carota, e soprattutto sanno che le rivolte interne – come quelle di cittadini eccessivamente vessati e con figli malati e con condizioni di vita al limite – potrebbero essere deleterie, per questo le reprimono sanguinosamente, come successe lo scorso agosto a Sirte (la capitale libica del gruppo), o cercano di evitarle instaurando un meccanismo di gestione sociale molto rigido a cui abbinano continue campagne di propaganda e opere pratiche (dalle vaccinazioni alle distribuzioni di dolci per strada, sollievo apparente, fino ai reportage dal territorio di John Cantlie, giornalista inglese imprigionato e costretto a prestare servizio per il Califfato).
IL RICONOSCIMENTO
Il Califfato è una realtà extraterritoriale, ossia ha un’ottica globale che non riconosce i confini e la legittimità degli altri stati e non richiede un posto seduto alle Nazioni Unite. Fu storica l’immagine dei bulldozer dell’IS che strappavano dalla terra le linee di confine di Sikes & Picot, le demarcazioni post coloniali che separavano Iraq e Siria. Lo Stato islamico è la terra di tutti i fedeli, il Califfo è Amīr al-Muʾminīn, il comandante dei credenti. L’espansione è un progetto centrale nell’ottica globale: non va dunque confuso quello che succede in Libia, con qualcosa di diverso dal territorio centrale siro-iracheno. A qualche centinaio di chilometri dalla costa italiana c’è lo Stato islamico, non è così forte come altrove, ma ci sono di fatto dei territori che fanno a tutti gli effetti parte dell’IS allo stesso modo di Tikrit, Mosul o Raqqa, e i vertici dell’IS stanno inviando da tempo in Libia personale idoneo ad impostare il sistema amministrativo. Lo stesso vale per la Nigeria o l’Egitto: i gruppi locali (Boko Haram e Ansar Beit al Maqdis, rispettivamente) hanno giurato fedeltà al Califfo, e così quei territori sono diventati province dello Stato islamico. Chi indottrina una ragazzina minorenne per farsi esplodere in un mercato del nord nigeriano, o chi colpisce i turisti in visita alla piramidi, non sono “affiliati dell’Isis”, non sono simpatizzanti, come qualche volta vengono descritti, ma sono proprio uomini guidati e diretti dal califfo Baghdadi, sono i soldati del Califfato.
UN’OTTICA GLOBALE
Siria, Iraq, Libia, Nigeria, Sinai, Khorasan, eccetera, sono pezzi di uno stesso puzzle, ossia del progetto di espandersi laddove le condizioni lo rendono possibile. Ma non è tanto quest’ottica globale a non essere compresa, piuttosto è l’aspetto locale della gestione amministrativa del territorio controllo di cui si parlava sopra a rendere complessa l’inqadramento dell’organizzazione, che spesso per superficialità, poca chiarezza, schematismo nell’approccio, viene erroneamente delineata come un qualunque gruppo terroristico. Gli attacchi sono parte del programma ideologico di installazione del Califfato, che prevede una fase di caos e terrore, e sono allo stesso tempo azioni tattiche che minano la stabilità di realtà nemiche; nel solito mix di ideologia e pragmatismo che caratterizza lo Stato islamico, che odia gli occidentali ma sfrutta per fare cassa il petrolio siriano di cui compagnie inglese, francesi, americane, russe, hanno dato inizio anni fa all’estrazione. Il terrorismo è dunque solo una componente, quella visibile, dello Stato islamico. Sforzarsi a comprendere certi aspetti è la chiave per contrastare l’espansione di questi che sono stati definiti “i nuovi barbari”: le intelligence americane tre anni fa invece li avevano sottovalutati, nonostante avessero sviluppato ampia conoscenza del fenomeno al Qaeda in Iraq, un gruppo combattente guidato da Abu Musab al Zarkawi che si faceva chiamare già dieci anni fa ISI (Stato islamico di Iraq), che è il prodromo dell’attuale Califfato, aveva già sviluppato quei lineamenti strategici, ideologici e politici che ora apprezziamo, e di cui hanno fatto parte tutte le figure centrali dello Stato islamico, compreso il Califfo. L’IS si regge anche sulla sottovalutazione dei consiglieri di Barack Obama, che lo portarono a dichiarare in un’ormai storica intervista al New Yorker che se un giocatore di una lega minore “si mette la maglia dei Lakers non diventa Kobe Bryant”, per spiegare che il gruppo di Baghdadi era un’entità marginale del jihad: continuando con la licenza metaforica, lo Stato islamico è diventato invece il Jerry West delle minacce, ossia il giocatore stilizzato come simbolo universale (nel logo della National Basket Association).