E così questo inverno sta correndo via. Un inverno senza neve, con alte temperature, alte pressioni e alte concentrazioni di inquinanti. Abbiamo imparato come la meteorologia interagisca direttamente con la nostra vita, meglio, con i nostri stili di vita. Abbiamo scoperto che un elevato numero di decessi dovrà essere imputato a come il tempo meteorologico abbia costruito una cappa sopra le nostre città impedendo la dispersione degli inquinanti. Abbiamo ancora una volta confuso l’inquinamento con il clima. Abbiamo fornito dei dati di mortalità con delle cifre precise fino alla singola unità. Abbiamo strillato ogni giorno che questa società, così come è organizzata, non può reggere.
In questo inverno abbiamo quindi fatto molte cose: alcune giuste, alcune sbagliate, altre stupide. Tra le più stupide, abbiamo inscenato la solita rappresentazione mediatica, che vende le notizie ma lascia un paese più povero di idee. I dati in nostro possesso, quelli certi, ci hanno raccontato come funziona un mondo, ma noi non abbiamo saputo o voluto vedere.
Il dito accusatore è stato puntato contro il traffico autoveicolare. Questo certamente inquina, ma non è l’unico inquinante. Anzi, a ben vedere non è neppure il principale protagonista, non è riuscito a diventarlo nonostante il traffico sia fortemente cresciuto. I nuovi motori hanno fattori di emissione estremamente bassi se comparati al passato, o almeno li hanno quei motori di case automobilistiche che non barano sui dati. I motori da Euro 4 a crescere incidono pochissimo sulle emissioni complessive, pochi per cento. Allora il dito andava puntato su qualcosa d’altro, sul riscaldamento domestico o le emissioni industriali. Chi si è voluto informare ha scoperto che improvvisamente sono comparse tra gli inquinanti delle particelle frutto delle emissioni da stufe a pellet. Il perché improvvisamente torniamo a bruciare legna, anche se in formato diverso, ce lo ha detto chiaramente Kristian Fabbri, un architetto docente di fisica tecnica, che ha scritto un bellissimo lavoro sull’accesso all’energia in funzione della povertà.
Kristian ci parla di ‘fuel poverty’ e ci propone anche un indice per misurarla. Il lavoro è forse troppo recente, agosto 2015, perché la politica ne possa avere recepito i contenuti, ma sappiamo che più spesso la politica risulta essere ben poco interessata ai contenuti della scienza. Se qualcuno si fosse andato a leggere questo articolo forse avrebbe capito che non bastava parlare di traffico, che non sarebbe stato sufficiente proporre quel piano di emergenza (che va detto non riporta misure sbagliate, che sono di buon senso) ma che non può risolvere il problema. Quindi se andiamo a vedere i dati ci accorgiamo che questi contengono un indicatore fondamentale sullo stato di salute della nostra società, sul problema dell’accesso e della dignità delle persone, e anche il problema ambientale.
Quanti hanno valutato queste cose? Pochi, veramente pochi. Il rituale mediatico si è sviluppato dallo smog, al clima, al traffico, ai SUV senza minimamente scalfire il succo del problema, rimanendo su una crosta di slogan poco adatti a rappresentare veramente quella che è l’evoluzione del nostro mondo. Non ci siamo neppure accorti che questi dati feriscono profondamente un altro slogan, caro all’ambientalismo e alla politica: pensare globalmente e agire localmente.
Questo slogan è ampiamente condivisibile, ha un appeal molto forte: indica un modo di vivere, di orientare la politica, di convincere i cittadini delle conseguenze delle loro azioni. Su questa filosofia si basa un elemento di governo forte rappresentato dal Patto dei Sindaci. L’indirizzo che propone è quello di essere virtuosi a partire dal basso per la costruzione di un mondo migliore. Questo è sicuramente bello, educativo, sostenibile, ma la crisi ambientale di questo inverno mette in crisi anche questo slogan.
In politica agire significa mettere a disposizione risorse per cambiare il mondo, risorse pubbliche in generale. Quindi costi che ricadono sulla comunità. Molti Comuni che aderiscono al patto sono estremamente virtuosi che hanno quindi chiesto ai propri cittadini sacrifici per esprimere questo essere virtuosi con fatti concreti: riforestazioni urbane, limitazioni del traffico, raccolta differenziata dei rifiuti, processi di diffusione ed insegnamento di una cultura ambientale. Non si vuole sostenere che tutto questo non serva, tutto questo è pregevole, ma tutto questo ha un senso tout court?
La crisi di questo inverno ci indica che dobbiamo incamminarci per due strade ineludibili che sono: l’approccio sociale e l’approccio di sistema ai problemi ambientali.
Più di quaranta anni fa Dario Pacino scrisse “L’imbroglio ecologico”. Fu un libro dirompente, che si collocava all’interno di una filosofia di ambientalismo duro, e superava quello più alla figlio dei fiori della Rachel Carson con il suo “Primavera silenziosa”. Il libro di Pacino indicava chiaramente i rapporti politico-sociali insiti nell’ambiente o meglio nella tutela dell’ambiente. Pacino fu descritto come un fustigatore delle ipocrisie e degli slogan, e giustamente. Esiste quindi un filo sottile che lega il libro del 1972 di Pacino con l’articolo dell’agosto scorso di Fabbri: l’accessibilità degli strati sociali al benessere come elemento fondante anche della politica ambientale. Questa è la strada più complessa da intraprendere perché significa riportare la figura del cittadino, quale portatore di diritti, aspirazioni e dignità al centro del sistema del vivere dove l’ambiente è uno degli indicatori del benessere delle persone.
L’altra strada, quella relativa all’approccio sistemico al problema ambientale, sembrerebbe essere molto più semplice. I singoli amministratori devono cambiare la mentalità che li costringe a valutare solo le politiche di corto respiro, con l’occhio attento unicamente al proprio piccolo bacino elettorale. Dovrebbero comprendere che questi problemi hanno, per la loro soluzione, tempi più lunghi del loro mandato elettorale e che i risultati, quelli giusti, dovranno essere condivisi con altre realtà, anche politicamente differenti. Infatti, abbiamo visto, i dati lo indicano, che è del tutto inutile operare solo a livello del proprio piccolo comprensorio, e che occorre un accordo vasto tra le municipalità, nel caso della Pianura padana un accordo di bacino che armonizzi gli interventi, perché il solo ‘act locally’ non è sufficiente e può rappresentare uno spreco di soldi e risorse per non ottenere risultati. Il piano del Governo conteneva questa indicazione, ed era una buona indicazione.
Certo, l’inverno è passato. Queste considerazioni sono un dopo emergenza, forse prive di interesse, almeno fino al prossimo anomalo inverno. Però sono una piccola storia che ci dice che dobbiamo guardare ai dati, alle misure, per interpretare il mondo. Gli slogan possono funzionare, forse per tutti talvolta, più spesso per pochi, e non risolvono il mondo se presi come verità assolute e non come le esemplificazioni che dovrebbero essere. Confidiamo nell’analisi che la politica farà dei dati della scienza, confidiamo perché sappiamo che la cattiva politica la possiamo mandare a casa se vogliamo.