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Chi gioisce per il maxi polo Repubblica-Stampa

Miracolo nella carta stampata. Il “polo” annunciato dagli editori di Repubblica, Espresso, relativi giornali locali, Stampa e Secolo XIX ha accomunato nelle critiche, preoccupazioni e quant’altro due giornalisti – e mondi – che più diversi non potrebbero essere: l’ex deputato forzista Paolo Guzzanti, sul Giornale della famiglia Berlusconi fondato nel 1974 da Indro Montanelli, e Marco Travaglio, direttore del Fatto Quotidiano. Una testata, quest’ultima, volutamente analoga al titolo di una trasmissione televisiva di Enzo Biagi per vendicarne l’autore dalla presunta cacciata dalla Rai per volere dell’allora Cavaliere appena tornato a Palazzo Chigi, ma nata per firme e contenuti da una delle ultime edizioni di quello che fu il giornale ufficiale del Pci. Tanto Travaglio, diventatone direttore in un secondo momento, quanto il predecessore Antonio Padellaro, che adesso ne presiede la società editrice e svolge assiduamente anche il ruolo di editorialista, avevano condiviso un’esperienza tormentata nel giornale che era stato di Antonio Gramsci.

Paolo Guzzanti, che invece è approdato al Giornale dopo avere scritto tanto su Repubblica quanto sulla Stampa oggi spose, o quasi, ha avvertito e al tempo stesso denunciato nell’intesa fra le sue due vecchie testate odore, o puzza, secondo i gusti, di un “renzismo acchiappatutto”, e di una “omologazione” che “è molto peggio dell’omofobia”, intendendosi per tale, come dice il dizionario della lingua italiana di Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli, repulsione per l’omosessualità.

Marco Travaglio, ispirandosi ad un Nanni Moretti d’annata, quello di Aprile del 1998, ha visto nel “polo” che lui chiama StamrepubblicaXIX quel tappeto fatto di più giornali in cui il comico si avvolse per denunciare l’omologazione e l’intercambiabilità dell’informazione di carta, e relativi commenti e firme. “O Moretti è un profeta o Elkann, De Benedetti e Perrone gli hanno rubato l’idea”, ha scritto il direttore del Fatto Quotidiano con l’ironia che ogni tanto lo riscatta da ciò che riesce a scrivere storpiando scompostamente i nomi delle sue “vittime”, peggio di come faceva a suo tempo Guglielmo Giannini, il commediografo fondatore dell’Uomo Qualunque, e fa ora Beppe Grillo, il comico fondatore del Movimento 5 Stelle. O assemblando i soliti documenti giudiziari che arrivano di giorno e di notte sulle sue scrivanie, o direttamente nei suoi archivi, camminando incredibilmente sulle loro gambe, senza bisogno che nessuno glieli porti o glieli mandi, a mano o per posta.

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Sbaglierò per la solita professionale malizia, mai comunque superiore a quella di Travaglio, favorito per fantasia non foss’altro dall’anagrafe, ma al Fatto Quotidiano le nozze, o quasi, annunciate da quel po’ po’ di editori e testate fanno in fondo più sperare che indignare davvero, come cerca di farci credere con le reazioni critiche il suo furbo direttore.

Privo ormai dell’obiettivo storico contro cui puntare tutte le sue bocche di fuoco, cioè Berlusconi, il giornale di Travaglio ha dovuto ripiegare su Matteo Renzi e alleati o compagni più o meno casuali di strada, a cominciare naturalmente da Denis Verdini. Ebbene, ora assapora il gusto di non trovare concorrenti seri su questo percorso, almeno nel tradizionale e naturale bacino di lettori di un quotidiano come quello fondato con Padellaro. E dove non c’è concorrenza, o si riduce, aumentano gli affari. O possono aumentare, se non si commettono errori, o non si pagano involontariamente le spese di una crisi generale della carta stampata, causata da un misto di disaffezione del pubblico e d’incapacità d’interpretarne gusti e attese.

Il “polo” editoriale annunciato tra Torino, Genova e Roma può aprire a giornali come Il Fatto Quotidiano le classiche praterie, come la crisi dei vecchi giornali dichiaratamente comunisti, a metà degli anni Settanta, aprì praterie alla Repubblica di carta fondata da Eugenio Scalfari. Che non a caso riempì le sue redazioni di giornalisti provenienti proprio da quelle testate, cercando di scegliere naturalmente i migliori.

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Fra i giornali di maggiore diffusione, specie dopo lo sdoganamento del presidente del Consiglio e segretario del Pd avvertito nell’editoriale di Scalfari della terza domenica di Quaresima, dove anche Verdini ha trovato parole di apprezzamento per l’aiuto fornito al governo, quello che sembra ormai resistere di più al “renzismo acchiappatutto” lamentato o avvertito da Paolo Guzzanti è il Corriere della Sera. Dove è appena tornato a scrivere editoriali l’ex direttore Ferruccio de Bortoli: quello che ne era stato allontanato, guarda caso, dopo avere duramente criticato Renzi, avvertendo attorno a lui odore “stantio di massoneria” e dandogli del “maleducato di talento”. E che ha appena scritto, dopo quello di domenica 21 febbraio, un fondo in cui si lamentano, nella parte pubblicata in prima pagina, i limiti della riforma costituzionale sulla quale il presidente del Consiglio ha scommesso la sua esperienza politica. Una riforma che semplifica per fortuna un po’ le cose, ma che – secondo de Bortoli, sensibile evidentemente alla dichiarata “efficacia caustica” delle critiche di Gustavo Zagrebelsky, avvertito da Renzi come il principale gufo fra i costituzionalisti italiani – “non avvicina il quadro istituzionale al cittadino, non lo rende protagonista”.

La coincidenza ha voluto che da questo Corriere della Sera appena tornato alla urticante penna di Ferruccio de Bortoli gli eredi di Gianni Agnelli abbiano deciso di uscire, preferendo allearsi con De Benedetti. Una coincidenza diabolica, che avrà fatto piacere agli amici e sostenitori del presidente del Consiglio.


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