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Che cosa (non) dice Scalfari del polo Repubblica-Stampa

Attesa per il modo col quale avrebbe partecipato alla festa del “polo” appena annunciato fra la “sua” Repubblica, e annessi, e la Stampa, il giornale storico della Fiat degli Agnelli da cui egli aveva già attinto 20 anni fa personalmente il primo successore alla direzione del proprio giornale, l’omelia laica di Eugenio Scalfari per la quarta domenica di Quaresima è stata quasi interamente dedicata agli ultimi 40 dei 140 anni complessivi della storia del Corriere della Sera. Che li ha appena celebrati con un inserto di tutto rispetto.

A prima vista la scelta di Scalfari potrebbe sembrare addirittura di voluto e persino critico distacco dalla vicenda del polo editoriale concordato fra gli eredi degli Agnelli e Carlo De Benedetti. Ma sarebbe un’impressione sbagliata, oltre che contrastante col significato politico della precedente omelia di Scalfari, di appoggio una volta tanto piena alle scelte e alla linea del presidente del Consiglio e segretario del Pd Matteo Renzi. Poi apparsa, per i suoi tempi, propedeutica proprio alla fusione, o qualcosa di simile, fra testate destinate ad essere forse accomunate dalla scommessa sulla capacità di Renzi di modernizzare il Paese, e non solo, o nonostante la sinistra che ancora gli resiste nel partito, per non parlare di quella che n’è rimasta fuori.

La ricostruzione dei 40 anni di “vivace concorrenza” fra la sua Repubblica e il vecchio Corriere della Sera ha il sapore di un bollettino della vittoria emesso da Scalfari, come per dire che il polo editoriale da lui neppure citato segna la definitiva sconfitta del Corriere, per quanto egli l’abbia già altre volte annunciata, considerando il sorpasso della Repubblica, da sola, avvenuto in termini di diffusione già nel 1986. I numeri, a dire il vero, non sono stati sempre quelli immaginati o rappresentati da Scalfari nel lungo e orgoglioso bollettino della vittoria, essendo più volte riuscito il Corriere a recuperare lo svantaggio e a riconquistare il primato delle copie, ma alla fine la situazione si presenta, obiettivamente, come il fondatore della Repubblica l’ha sempre sognata, vivendola spesso persino come un’ossessione.

Una volta insieme, in qualunque modo decideranno di farlo concretamente, se a testate ancora separate o addirittura unificate in un panino unico, come hanno fatto i quotidiani del gruppo Riffeser-ex Monti, i giornali del polo appena annunciato possono ben considerare chiusa la partita quarantennale di Scalfari col Corriere della Sera.

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Le difficoltà del pur ancora prestigioso quotidiano di via Solferino si sono peraltro aggravate con l’uscita degli eredi degli Agnelli dalla proprietà, stanchi di spendervi danaro e di essere anche accusati dalle rappresentanze sindacali di avervene buttato, o addirittura prelevato, più che investito. Una cosa che farà probabilmente rivoltare davvero nella tomba “l’avvocato di panna montata”, come una volta Scalfari chiamò impietosamente Gianni Agnelli, convinto invece che di panna montata fossero tutti i suoi concorrenti. Tanto montata che poi, alla fine, le cosiddette istituzioni politiche e finanziarie si rivolgevano a lui, e non ad altri, per operazioni di salvataggio di pezzi delle stesse istituzioni, come veniva considerato lo stesso Corriere della Sera.

Abbandonato all’improvviso dall’azionista di maggiore riferimento, il Corriere della Sera si ritrova di nuovo in rotta di collisione, o quasi, con Renzi. Una rotta dalla quale sembrava uscito l’anno scorso con l’avvicendamento, alla direzione, fra il troppo esigente Ferruccio de Bortoli, spintosi ad avvertire odore “stantio di massoneria” attorno al presidente del Consiglio e segretario del Pd, un “maleducato”, sia pure “di talento”, e un più paziente o tollerante Luciano Fontana. Che però alla prova dei fatti deve essere apparso a Renzi meno paziente, tollerante o disponibile del previsto, se lo ha lasciato tante volte sbertucciare dai suoi editorialisti ed ha riportato fra di loro il suo predecessore, tornato non certo col capo cosparso della cenere della Quaresima.

Non a caso nel primo commento l’ex direttore ha liquidato fra le “stupidità” le ragioni addotte dal governo per giustificare l’ancora troppo forte debito pubblico italiano e nel secondo ha sollevato dubbi sulla possibilità che la riforma costituzionale tanto voluta dal presidente del Consiglio riesca a ridurre davvero le distanze fra le istituzioni e il cittadino-elettore. Dubbi ai quali Renzi non ha voluto scomodarsi a rispondere di persona, come aveva fatto invece con una lettera a Repubblica nelle scorse settimane sui temi europei sollevati da Scalfari, ma ha disposto che rispondesse la ministra competente, cioè Maria Elena Boschi. Anche questi sono segnali.

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Nel racconto della sua Repubblica, e si deve presumere anche nell’immaginazione del polo derivante dalle sinergie con la Stampa, Scalfari è tornato a negare ch’egli abbia mai voluto fare, guidare o partorire cose diverse da un giornale sotto le spoglie di una testata. “Noi non siamo mai stati un partito”, ha scritto, avendo “sempre avuto noi stessi come punto di esclusivo riferimento”, al quale via via possono essersi accostati personalità o partiti, fra cui egli ha voluto citare i compianti Guido Carli, Antonio Giolitti, Aldo Moro, Enrico Berlinguer e Nino Andreatta, nonché Ciriaco De Mita, felicemente ancora in vita. Sono sfuggiti alla penna o alla memoria di Scalfari i poveri Ugo La Malfa, Giovanni Spadolini, Bruno Visentini e l’ancor vivo Mario Segni, Mariotto per gli amici, che trovò nella Repubblica una forte sponda alle spallate referendarie contro i voti di preferenza e il sistema elettorale proporzionale.

Sembra di capire, dal ragionamento di Scalfari, che Matteo Renzi, se vorrà, potrà unirsi a questa compagnia di politici attratti da un partito che non è un partito solo perché è ben più di un partito.  D’altronde, il vangelo della quarta domenica di Quaresima è quello di San Luca sul figliol prodigo.

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