E’ comprensibile che Silvio Berlusconi e quanti ne condividono l’avversione alle primarie, almeno sino a quando non saranno seriamente disciplinate per legge, siano impegnati a enfatizzare gli aspetti deboli o controversi di quelle appena svoltesi nel partito di Matteo Renzi per scegliere i candidati a sindaco di Roma, Napoli, Trieste e Benevento, dove si voterà a giugno per il rinnovo delle amministrazioni. Bassa affluenza, come quella lamentata in particolare a Roma, dove ha vinto Roberto Giachetti, e irregolarità come quelle emerse a Napoli, e usate da un “disgustato” Antonio Bassolino per contestare la vittoria di misura della sua ex compagna di corrente Valeria Valente, portano obiettivamente acqua al mulino della contrarietà o dello scetticismo dei berlusconiani per questo strumento di selezione dei candidati. Cui si preferiscono, quando proprio non se ne può fare a meno, forme un po’ stravaganti come quella appena inventata a Roma per ratificare a fine settimana, senza concorrenti, la candidatura di Guido Bertolaso già decisa e certificata da Berlusconi in persona, ma contestata dai leghisti e dalla destra di Francesco Storace.
Meno comprensibile è che agli argomenti di Berlusconi si aggrappino o accodino nel Pd, come tanti Tafazzi, gli esponenti di quel che resta della minoranza, e le appendici esterne, per contestare l’affermazione di candidati la cui unica colpa politica è quella di essere stati sostenuti e a volte anche proposti, come Giachetti a Roma, da Matteo Renzi in persona o, più in generale, dalla maggioranza che regge il partito. Dove pure le primarie hanno finito di essere una formula o un modo di selezione dei candidati per diventare un mito, con tutti gli inconvenienti che hanno i miti.
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Gli antirenziani rimproverano a Giachetti, oltre alle origini radicali, e alla permanenza delle sue affinità con Marco Pannella, troppo liberale e garantista per i loro gusti, i cinquantamila e rotti militanti o simpatizzanti del Pd che sono mancati alle primarie rispetto ai centomila della precedente edizione per il Campidoglio: quella che portò alla candidatura e poi all’elezione di Ignazio Marino a sindaco.
Viste però la fine non proprio esaltante di quella scelta e le pendenze giudiziarie dell’ormai ex sindaco, cui non dovrebbero essere insensibili gli avversari o semplicemente gli scettici del garantismo, tipo la presidente della commissione parlamentare antimafia Rosi Bindi, che nella scorsa legislatura sbottò in aula a Montecitorio contro il collega dissidente di gruppo Giachetti in una votazione dalla quale si era salvato dalle manette, o simili, un parlamentare dello schieramento opposto; vista però la fine – dicevo – dell’ormai ex sindaco, sarebbero poco da rimpiangere i cinquantamila sottrattisi probabilmente alle primarie per solidarizzare con Marino. Meglio accontentarsi degli altri cinquantamila, o poco meno, che sono tuttavia pur sempre tanti, specie in una giornata di pioggia e in una città svogliata e stanca dei suoi problemi come Roma. O no?
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Appartengono al regno di Tafazzi anche quelli che, a sinistra e a destra, hanno salutato con malcelata delusione la decisione dell’Ecofin di richiamare l’Italia, insieme con altri Paesi, fra i quali la Francia, per il troppo alto debito pubblico senza però aprire un procedimento di cosiddetta infrazione. Che avrebbe fatto comodo, direbbe Renzi, ai soliti “gufi” o “rosiconi” per complicargli gli appuntamenti elettorali dei prossimi mesi, compreso il referendum d’autunno sulla riforma costituzionale di ormai imminente varo parlamentare, mancandole solo l’ultimo, ormai scontato passaggio alla Camera.
Dalle autorità comunitarie le opposizioni si aspettavano evidentemente un’applicazione non flessibile ma rigida dei famosi parametri dell’Unione Europea concordati nel lontano 1992 a Maastricht: tanto rigida da essere stata definita una volta “stupida” dall’allora presidente della Commissione di Bruxelles Romano Prodi e, più recentemente, in un incontro a Palazzo Chigi con Renzi, dal presidente in carica Jean-Claude Juncker. Che è lo stesso, non un sosia, spintosi qualche settimana prima a pesanti giudizi sullo stesso Renzi, definendolo praticamente un giovanotto ancora troppo sprovveduto per fronteggiare un uomo navigato come lui.
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Finalmente, a venticinque anni dalla morte, si comincia a restituire quel che in vita era stato negato al povero Carlo Donat-Cattin, lo storico leader della sinistra “sociale” della Dc definita Forze Nuove, distinta dalla sinistra “politica” chiamata Base: l’una impegnata a garantire con il contenuto delle leggi la difesa dei ceti deboli, l’altra impegnata nella scommessa su un rapporto privilegiato con i comunisti, preferiti ai socialisti.
Ad un convegno organizzato al Senato almeno alcuni di quelli che in vita lo classificarono a destra per la sua opposizione ad un governo col Pci, che non andasse oltre l’appoggio esterno ad una compagine ministeriale di emergenza composta interamente da democristiani, compreso lui, il povero Donat-Cattin si vedrà restituito alle sue origini sindacali e caratteristiche progressiste. Meglio tardi che mai, anche se il tardi è ormai sepolcrale per l’interessato. Sono purtroppo i tempi abituali di ripensamento della sinistra italiana di cultura o provenienza marxista.