Temo che non basteranno né l’ostinazione di Eugenio Scalfari, che non perde occasione per riproporre la sua Europa “federale”, e ha chiesto di rispondere agli attacchi del terrorismo islamista con la nomina di un ministro unico dell’Interno nel vecchio continente, come ha già fatto opponendo agli speculatori e alla crisi economica l’idea di ministro unico delle Finanze, né l’ottimismo immaginifico di Walter Veltroni a rendere un ossimoro ciò che non è. Il dizionario della lingua italiana lo definisce impietosamente “l’accostamento nella medesima locuzione di parole che coprono concetti contrari”. Cioè, un controsenso. Può essere una licenza letteraria, poetica, niente di più e di diverso.
L’ossimoro retoricamente proposto anche da Veltroni dopo le stragi di Bruxelles e di Parigi, per non parlare di quelle che le hanno precedute, da Madrid a Londra, è la “verifica”, con la conseguente mobilitazione, di quanti “credono davvero nella magnifica e realistica utopia di un’Europa unita”: i famosi “Stati Uniti d’Europa” sognati fra le rovine ancora fumanti dei paesi europei devastati dalla seconda guerra mondiale”. Sognati, per esempio, dagli antifascisti italiani, fra i quali molti comunisti, rinchiusi a Ventotene o altrove mentre venivano raggiunti dalle cronache dei vari fronti dove si consumava l’immane tragedia del conflitto scatenato nel 1939 da Hitler con la complicità, non dimentichiamolo, di Stalin. E dopo che un bel po’ di ingenui travestiti da statisti avevano scambiato lucciole per lanterne trattando con il dittatore nazista non la pace, ma solo brevi rinvii della guerra.
Scrivere, come fa il buon Veltroni, di “realistica” e non solo “magnifica utopia” significa illudersi e illudere, perché l’utopia, come ci avverte anche qui il dizionario della lingua italiana, come nel caso dell’ossimoro, significa “l’oggetto di un’aspirazione ideale non suscettibile di realizzazione pratica”. Come fu anche il comunismo, dal quale Veltroni, a dire il vero, ha sempre cercato di considerarsi e di essere considerato estraneo per ragioni non foss’altro anagrafiche, ma che era pur sempre il dichiarato, anzi vantato riferimento storico e ideologico del partito in cui accettò di militare ancora con i calzoni corti. Un comunismo realizzato a carissimo prezzo, di libertà e di vita, in alcuni Paesi dove i meno giovani di Veltroni andavano a fare allegramente le vacanze, o addirittura a istruirsi per cercare di fare in Italia ciò che si faceva là, pur con il proposito di qualche variante nazionale, bontà loro.
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Forse appartiene all’utopia, almeno in Italia, anche il mondo degli editori cosiddetti puri. Che posseggono, stampano e distribuiscono giornali per venderli e informare il pubblico di ciò che onestamente e liberamente sanno, raccontano e pensano le persone pagate appunto per confezionarli. Editori, non mecenati, legittimamente interessati quindi a trarre profitto da ciò che stampano, ricavando fra vendite e pubblicità più delle spese sostenute, o degli investimenti effettuati. Editori “puri” in quanto impegnati solo a fare e a vendere giornali, e ogni altra forma di media, in questo mondo dove la carta da tempo non la fa più da padrona. E non a fare e a vendere giornali a supporto invece di altre, ben più solide e fruttuose iniziative industriali, finanziarie e di qualsivoglia natura diversa da quella editoriale, laddove queste possono essere favorite dal potere contrattuale che gli editori in quanto tali riescono a conquistare e ad attribuirsi nei riguardi della politica e del mercato, specie quando l’una e l’altro interferiscono per le più diverse ragioni o circostanze.
Pur consapevole di questa utopia, e dei suoi inconvenienti, in cui può accadere a ciascuno di noi giornalisti di imbattersi, a volte persino a sua insaputa, per ripetere un termine che ormai desta più ilarità che altro per i pasticci ai quali si è prestato, debbo confessare l’indignazione che ho provato nel vedere un’intera redazione di giornale – non l’editore ma, ripeto, l’intera redazione, graduata e non- aggredita da un quotidiano concorrente per avere riferito una notizia che anche a me – su Formiche.net – era apparsa appunto una notizia, e non altro. E tale continuo a considerarla.
Sto parlando del grave infortunio nel quale è incorsa la bella e giovane candidata grillina a sindaco di Roma, Virginia Raggi, annunciando o minacciando interventi sui manager di un’importante azienda dell’acqua e della luce partecipata dal Campidoglio, l’Acea, che ha poi subìto una perdita in Borsa di oltre il 4 per cento, quantificata in soldoni in circa 140 milioni di euro, di cui una settantina a carico del Comune. Quantificazione certamente virtuale, nel caso in cui gli azionisti avessero effettivamente venduto in quei giorni o in quelle ore i titoli, ma virtuale come ogni quantificazione di questo genere, di cui pure sono pieni i titoli e i titoloni di tutti i giornali, telegiornali e quant’altro ad ogni starnuto di Borsa. Quando a ballare, appunto nei titoli, sono miliardi e miliardi di euro.
Ebbene, perché quella notizia era stata anticipata dal Messaggero, il cui editore Francesco Gaetano Caltagirone è fra gli azionisti non certo secondari dell’Acea, direttore, capiredattori e “grandi firme” del quotidiano romano, fra cui c’è un magistrato di prim’ordine come Carlo Nordio, inviso tuttavia ai tagliagole di carta, sono stati accusati dal Fatto Quotidiano di avere buttato nella pattumiera la propria professionalità. Essi si sarebbero prestati a fare un’operazione speculatrice di carattere politico, contro la candidata grillina al Campidoglio e a favore di quello che sembra il suo maggiore concorrente. Che è il vice presidente piddino e renziano della Camera Roberto Giachetti.
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La rappresentanza sindacale dei giornalisti del Messaggero ha reagito definendo “offensivo e deontologicamente scorretto” il tentativo del giornale concorrente di “screditare un’intera redazione”. Si è risparmiata, per fortuna, l’iniziativa giudiziaria di una denuncia. Per fortuna, perché con i tempi che corrono nei tribunali italiani i giornalisti del Messaggero potrebbero finire, come si dice a Roma, ma non solo a Rona, cornuti e mazziati.
Posso comunque assicurare il direttore Michele Arnese, che ha ospitato un mio graffio sulla questione Raggi, di non avere rapporti di alcun tipo con Francesco Gaetano Caltagirone, nominato dal Fatto Quotidiano “l’ottavo re di Roma”, e di non possedere uno straccio di titolo o incarico all’Acea. Dell’acqua e della luce so solo aprire e chiudere i rubinetti o gli interruttori nella mia abitazione romana, acquistata peraltro ben prima che i Caltagirone si mettessero a costruire case. Mi posso pertanto consentire il lusso di continuare a considerare politicamente improvvida la sortita della candidata grillina al Campidoglio su un’azienda partecipata dal Comune e quotata in borsa. Di cui pertanto occorrerebbe parlare con più cautela in campagna elettorale.