Le elezioni primarie americane, che si avviano verso la conclusione, hanno indicato con evidenza quali mutamenti rilevanti nel tessuto sociale e politico sono avvenuti negli Usa. Rimane quello schema bipartitico che la ha caratterizzate da quando nacquero, nel 1847. Ma le caratteristiche dei candidati, repubblicani e democratici, mostrano che gli Stati Uniti sono cambiati profondamente.
Per due secoli la scelta del presidente avveniva sempre dentro il mondo “w.as.p” (bianchi, anglosassoni, protestanti). Sino al 1961, quando si ebbe con Kennedy il primo presidente cattolico.
Il nuovo millennio ha esteso la scelta dai bianchi ai neri (Obama per due volte) e le primarie sono oggi aperte ai latino-americani, agli israeliti e alle donne. Niente di male, anzi: non c’è democrazia senza eguaglianza dei cittadini. Ma anche l’indicazione che la coscienza civica e i rapporti di forza sono profondamente mutati, lo aveva intuito con acutezza Samuel Huntington nel suo ultimo libro, La nuova America. Le sfide della società multiculturale (2005, Garzanti). Dal Seicento dei pellegrini alla prima metà del Novecento, gli Usa hanno avuto una mescolanza di etnie, integrate nei valori comuni dei padri fondatori e degli artefici dell’indipendenza: “Libertà, eguaglianza di opportunità, etica del lavoro, rispetto della legge e diritti individuali”. Il tutto tenuto insieme dal collante della religione evangelica, sposata con la politica in quella “civic religion”, nella quale anche i migranti si integravano.
Ancora nel 1999 il 92% dei cittadini dichiarava che avrebbe avuto difficoltà a votare per un ebreo, un uomo di colore o di sesso femminile. Tuttavia, a partire dalla presidenza Kennedy, era entrata in crisi la prevalenza dell’identità americana, fondata sulla lingua e la tradizione, che la crescita delle identità subnazionali aveva largamente decostruita e sostituita. Oggi la cultura americana è sempre più multetnica e multirazziale. Possiamo allora comprendere perché, fra i repubblicani, due candidati erano figli di cubani, Marco Rubio e Ted Cruz; e un altro nero, Ben Carson. Tutte personalità rilevanti, ma anche segno evidente che i partiti debbono tener conto di una modificazione notevole nel peso delle etnie nel paese. E fra i repubblicani sta ottenendo grandi consensi, anche contro il suo partito, un esponente di quel populismo, che in Europa è così diffuso: Donald Trump.
Ma la vera novità di queste primarie è il candidato meno giovane di tutti, Bernie Sanders, che sta ottenendo un discreto successo. Figlio di polacchi, è di religione israelitica, anche se si definisce “secolare”. Di presidenti ebrei gli Usa non ne hanno ancora avuti. Ma il fatto più significativo è che egli sia un candidato “indipendente” nel Partito Democratico, in quanto si definisce “socialista”. Gli Usa hanno avuto repubblicani con l’elefante e democratici con l’asinello, ma la falce e martello non hanno mai attecchito. Era quanto sottolineava, con stupore, nel 1906, il grande sociologo Werner Sombart: Perché non esiste il socialismo negli Stati Uniti? E rispondeva: “Perché il dualismo non è fra borghesi e proletari, ma fra chi produce e chi non lo fa; e i sindacati sono organizzazioni professionali prive di colore politico, anche se, di volta in volta, scelgono da che parte stare”. Un vera “eccezionalità” in Occidente, visto che erano il paese più industrializzato del mondo. Eppure il socialismo non vi attecchì mai.
Ora Sanders lo propone. Certo, quello democratico, di matrice nordeuropea, da cui desume i suoi punti programmatici: l’intervento dello Stato nell’economia, il sistema sanitario nazionale, la università pubblica gratuita, il salario minimo orario di 15 dollari, i diritti delle donne, la fine dei finanziamento delle lobby alle campagne elettorali. Il suo elettorato è fatto soprattutto di vecchi, per i quali si cerca di risparmiare, e ancor più di giovani, fortemente penalizzati dalla crisi economica. Come è accaduto in Europa con Podemos e Syriza, ma anche negli Usa con Occupy Wall Street.
Ciò che accomuna tutti i candidati è l’accentuazione di una tendenza già evidente nelle due presidenze di Obama: essi guardano più al Pacifico che al Mediterraneo e propongono, con tonalità diverse, protezionismo economico e isolazionismo politico. Trump ha invitato le nazioni occidentali a farsi le loro atomiche per difendersi da sole e Obama ha chiesto agli italiani di mandare in Libia 5 mila soldati. Al di là della distinzione, ben poco realistica negli Usa, di sinistra e di destra, i tre candidati emergenti convergono sulla linea dell’America first. Il Novecento è stato il “secolo americano”, il Duemila vede prevalere negli Usa un clima di sfiducia sia nella globalizzazione, largamente tradottasi in crisi economica, che nell’intervento in Medio Oriente, per più ragioni, sterile, se non proprio fallimentare. Gli americani vogliono “farsi le cose loro”. Faranno sempre meno per l’Europa, che sarà costretta ad arrangiarsi sempre di più da sola. Non le sarà facile.
(Pubblicato su Italia Oggi, quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi)