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Ecco le guerre vere (e finte) tra magistrati e Matteo Renzi

PIERCAMILLO DAVIGO

Non vorrei che la lodevole sfida di Matteo Renzi ai magistrati, e non solo a quelli di Potenza alle prese con affari di petrolio, perché le loro indagini producano sentenze vere, cioè definitive, e non solo rumorosi ma vacui verdetti di primo grado alla vigilia della prescrizione, facesse la stessa fine della guerra che si dichiara, o proclama, al fantomatico Stato Islamico, o come altro si preferisce chiamarlo, ogni volta che i suoi miliziani clandestini compiono una strage.

Qui naturalmente non si vuole né fare né solo tentare un paragone, che sarebbe demenziale, fra la magistratura italiana, neppure quella più dichiaratamente o visibilmente protagonistica, e l’Isis. Si vuole soltanto denunciare il pericolo di avere paura delle parole o delle iniziative che si pronunciano o si assumono davanti alle prime reazioni che provocano presso chi si ritiene minacciato.

Non si possono lanciare sfide, neppure sotto forma di incitamenti, di volontà di “incalzare”, come ha appena detto il presidente del Consiglio difendendosi dalle critiche, anzi dagli attacchi rivoltigli dai rappresentanti sindacali delle toghe e dai loro corifei politici, ed avere poi timore di chiamarle col loro nome. Se sono davvero sfide, queste debbono realmente essere e restare, anche quando procurano problemi.

Non si possono dichiarare guerre, davanti ai morti e alle devastazioni che ti hanno procurato nemici spietati, e poi evitare di combatterle. O combatterle per modo di dire, senza più avere neppure il coraggio di chiamarle con il loro nome, e condannandosi quindi alla spiacevole realtà di una sconfitta.

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Il presidente del Consiglio, e segretario del Pd, non si può far zittire dagli autonomi scesi contro di lui sulle strade di Napoli fra il sarcasmo del sindaco Luigi de Magistris sul progetto Bagnoli. Ma neppure dalla pretesa di liquidare come “inopportune nei tempi e inconsistenti nei fatti”, come hanno fatto i rappresentanti sindacali dei magistrati, le sue proteste contro le troppe inchieste che rimangono appese nel vuoto delle campagne di stampa e “non vanno a sentenza”, come ha detto appunto Renzi lunedì scorso davanti alla direzione del suo partito rimediando 98 sì e solo 13 no.

Tanto meno si può pensare che un capo di governo, o un ministro della Giustizia, debba tremare all’idea ventilata più o meno chiaramente dai soliti gazzettieri delle Procure che i magistrati per difendersi meglio, o attaccare di più, come si preferisce, si accingano ad eleggere come presidente della loro associazione Piercamillo Davigo. Del quale quell’impertinente di Mattia Feltri, lo stesso che ha appena pubblicato una storia non epica del biennio del “terrore” di Mani pulite, vissuto da Davigo nella Procura di Milano in un ruolo non certo defilato, si è appena divertito a riproporre ai lettori della Stampa frasi e concetti che parlano da soli.

Eccovene una selezione, diciamo così certificata, a cominciare proprio dal biennio 1992-93 per spingersi sino ai giorni nostri, o quasi: “Stiamo processando un regime prima della sua caduta……..Gli inquisiti non si possono lasciare in libertà perché la gente si incazza……..Non esistono innocenti ma soltanto colpevoli ancora da scoprire…….Troppa carcerazione preventiva? Forse abbiamo esagerato con le scarcerazioni…..Lo Stato la smetta di coprire i reati……L’attività di destra e sinistra degli ultimi 20 anni è stata di rendere più difficile la lotta alla corruzione…….Mi sento impallinato alle spalle dagli altri poteri dello Stato”.

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Mattia Feltri ha prudentemente e giustamente escluso dalla selezione che ho solo parzialmente riprodotto il proposito attribuito a Davigo da Giuliano Ferrara, procuratosi per questo una querela, di “rivoltare l’Italia come un calzino” con i colleghi della Procura milanese. Dalla quale il magistrato sarebbe poi salito di grado e di funzioni, sino alla Cassazione.

Da chiunque coltivato con le toghe addosso, quel proposito fu preso sul serio, sia come auspicio sia come minaccia, da molti italiani. Fra i quali ve ne furono però di convinti, nel 1994, che valesse la pena far tentare l’avventura rivoluzionaria a Silvio Berlusconi. Che, arrivato di slancio a Palazzo Chigi, allontanatone dopo nove mesi da Umberto Bossi e ritornatovi due volte con il recuperato Bossi, nel 2001 e nel 2008, non è francamente riuscito a rivoltare l’Italia né come un calzino né come un bicchiere: trattenuto da alleati infidi, come dice lui, ma anche dai suoi oggettivi errori e limiti, politici e personali.

Ci sta forse riprovando Renzi, se ne avrà il tempo e non solo la voglia. E se non si lascerà pure lui intimidire dalle stesse parole che pronuncia quando si sente, a torto o a ragione, sotto schiaffo e rivendica il famoso ma perduto “primato della politica”, togliendo alla magistratura i vuoti che le sono stati lasciati dai predecessori lontani o vicini. E non lasciandogliene invece di nuovi, come fa quando chiama magistrati ad occupare i posti di governo o di amministrazione che si liberano per circostanze o incidenti di percorso. Glielo sta rimproverando da qualche tempo uno che se ne intende come l’ex magistrato ed ex presidente della Camera Luciano Violante, peraltro suo compagno di partito assai critico con chi gli sta facendo la guerra nel Pd e fuori. Una guerra non solo verbale. A quella che si prepara in autunno con il referendum confermativo della riforma costituzionale, su cui Renzi ha scommesso tutto, non a caso c’è già una corrente della magistratura schieratasi sul fronte del no.


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