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Ecco come Renzi (alla Berlusconi) ha tramortito le opposizioni in Senato

MATTEO RENZI

La sfiducia reclamata e mancata al Senato ha chiuso anche sul piano parlamentare l’offensiva referendaria delle opposizioni contro Matteo Renzi e il suo governo. Un’offensiva che potremmo chiamare delle trivelle: quelle marine, sopravvissute appunto al referendum disertato e affondato dal 68 per cento degli elettori, e quelle di terra lucana portate clamorosamente sulle prime pagine dei giornali, in piena campagna referendaria, dagli sviluppi di una vecchia indagine della Procura di Potenza. Che, dopo avere provocato le dimissioni di Federica Guidi da ministra dello Sviluppo economico per le influenze affaristiche esercitate su di lei dal convivente, hanno dato l’esca agli avversari del presidente del Consiglio per tentarne la spallata nell’aula del Parlamento dove più soffrono i rapporti numerici fra la maggioranza e le opposizioni di varia natura e colore, per quanto il governo possa contare da qualche tempo sul soccorso sistematico del senatore Denis Verdini e amici fuoriusciti da Forza Italia. I quali hanno voluto giustamente sottrarsi alla deriva lego-lepenista e, a tratti, persino grillina di quello che fu il centrodestra.

La sconfitta referendaria dei suoi oppositori, e dissidenti interni di partito, visto che delle nove regioni promotrici del referendum sette sono governate dalla sinistra, ha facilitato sin troppo il presidente del Consiglio nell’intervento al Senato contro gli avversari. Ai quali Renzi ha dato appuntamento ormai “fuori da qui”, essendo essi riusciti a trasformare il Parlamento in una specie di teatrino, dove tutte le occasioni sono buone per sottrarsi ai problemi concreti del Paese, o a farsene scudo solo per riproporre sfiducie di cui mancano i presupposti numerici. Giusto per aggiungere qualche dibattito o seduta della Camera o del Senato ai tanti, inutili talk show imbottiti di politica che affollano i programmi televisivi. E – ricordo – fanno sempre meno ascolti.

Questo passaggio dell’intervento non sarà probabilmente piaciuto per ragioni, diciamo così, di ruolo o d’ufficio al presidente del Senato Pietro Grasso. E neppure alla presidente della Camera Laura Boldrini, che ne avrà quanto meno letto il resoconto stenografico, se non lo ha sentito per radio o visto in tv  nel suo studio di Montecitorio. Ma l’abuso che troppo spesso le opposizioni fanno del Parlamento è una realtà tanto spiacevole quanto evidente.

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Purtroppo, in questo abuso del Parlamento per replicare o imitare i talk show, la gara fra l’ex centrodestra e i grillini si è fatta spietata. E, considerata la natura quasi geneticamente esasperata del Movimento 5 Stelle, alquanto penosa, oltre che sorprendente, per uno schieramento che ha a lungo governato con Silvio Berlusconi negli ultimi 22 anni. Penosa, in particolare per ciò che resta di Forza Italia. Che, a furia d’inseguire leghisti e pentastellati sulla strada dell’azione di contrasto pregiudiziale a Renzi, si è fatta scippare da lui anche la linea del garantismo.

Mi ha fatto una certa impressione, per esempio, sentir dire da Renzi nell’aula del Senato, in polemica anche col capogruppo forzista Paolo Romani e con l’ex alfaniano Gaetano Quagliariello, partecipi degli attacchi al governo per le indagini su Tempa Rossa, che i processi si fanno nei tribunali e non sui giornali o nelle piazze, e neppure nelle aule parlamentari. O che una cosa sono i tribunali, altra cosa sono “i tribuni”. O che gli avvisi di garanzia non sono condanne, come si è ritenuto per “25 anni di barbarie giustizialista”, quanti ne sono cioè trascorsi dalla falsa epopea di Mani Pulite. O che le condanne valgono quando sono definitive, e non solo di primo grado a pochi mesi dalla prescrizione, com’è appena accaduto a Potenza per un’altra inchiesta su affari petroliferi, di cui si spera non diventi una replica quella in corso, sempre in Basilicata. Inchiesta, quest’ultima, che ha occupato i due terzi del dibattito di sfiducia al governo nell’emiciclo di Palazzo Madama.

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Ora che si è consumata anche l’appendice parlamentare dell’appuntamento elettorale del 17 aprile contro le trivelle, di “popolare” al referendum usato come una clava contro il governo è rimasto solo l’aggettivo stampato con involontario umorismo sulle schede costosamente allestite con il quesito e il sì o o il no su cui mettere la croce con la matita. Più di 50 milioni e 675 mila schede, quanti erano gli elettori chiamati alle urne, ma di cui ne sono state usate solo 16 milioni scarsi. Le altre 34 milioni 675 mila e più schede con quel pomposo titolo di Referendum Popolare sono rimaste intonse nei seggi e destinate al macero.

È stato un macero di carta, di logica e naturalmente di euro. A soddisfazione e gloria del governatore pugliese Michele Emiliano, che superando in comicità politica anche Beppe Grillo, dopo avere voluto assumere la guida della campagna referendaria contro il presidente del Consiglio, e segretario del suo partito, si è convinto di avere stravinto.



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