Dice un vecchio proverbio, sicuramente noto a Giorgia Meloni, che tanto va la gatta al lardo che ci rimette lo zampino. Prima o dopo, la giovane e incinta sorella dei Fratelli d’Italia potrebbe incontrare, nella lunga campagna elettorale nella quale è impegnata come candidata a sindaco di Roma, un sostituto procuratore della Repubblica tanto voglioso di aprire l’ennesimo fascicolo su Silvio Berlusconi, giusto per tenersi in allenamento nella palestra di Piercamillo Davigo, da chiederle chiarimenti sui suoi ossessivi, ripetuti richiami ai piaceri che potrebbero scambiarsi, ai suoi danni, lo stesso Berlusconi e il presidente del Consiglio Matteo Renzi.
La Meloni, già espostasi su questo terreno nei giorni scorsi con dichiarazioni ricordate su Formiche.net insieme con altre, anche di Matteo Renzi, scambiabili da inquirenti malintenzionati come indizi di chissà quale reato, è tornata a dire, testualmente, ai lettori del Tempo: “Mettiamola così. Se Berlusconi chiedesse qualcosa a Renzi, in cambio il premier pretenderebbe sicuramente di non sostenere Giorgia Meloni a Roma”. Cercando così non dico di non farla eleggere sindaco di Roma al primo scrutinio, già il 5 giugno, ma di non farla arrivare dopo quindici giorni neppure al ballottaggio con uno degli altri candidati maggiormente accreditati nei ballottaggi: il renziano Roberto Giachetti e la grillina Virginia Raggi.
I voti al concorrente berluconiano Guido Bertolaso, che oggi Berlusconi ha fatto ritirare dalla corsa con il provvidenziale e improvviso appoggio a Marchini, sarebbero quindi serviti solo a danneggiare l’aspirante leader della destra romana. Ma, in verità, anche Alfio Marchini, al quale la Meloni non concede alcuna solidarietà standole politicamente antipatico, diciamo così, per le origini di sinistra della sua famiglia e per quella passione per il gioco del polo che lo renderebbe incompatibile con le borgate romane dove la giovane ex ministra ritiene di essere popolare, o comunque più popolare del troppo ricco o snob Marchini.
Ma, visto che l’ormai ex senatore Berlusconi, essendo all’opposizione con i gruppi parlamentari della sua Forza Italia, ha ben poco da chiedere politicamente a Renzi e al suo governo, i cui margini di maggioranza nella difficile assemblea di Palazzo Madama sono peraltro migliorati da qualche tempo con l’appoggio di Denis Verdini ed altri ex forzisti, a che cosa intende riferirsi la Meloni con le sue continue allusioni elettorali? Ecco la domanda che potrebbe venire spontanea a qualche magistrato, e mandare in sollucchero gli avversari dell’ex Cavaliere abituati per vent’anni a rimproverargli veri o presunti conflitti d’interesse. E che ancora adesso non riescono a distinguere fra la politica di Berlusconi, o quel che ne rimane, e la gestione delle sue aziende.
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Non più tardi di martedì scorso Il Fatto Quotidiano, non so se presente nella mazzetta dei giornali abitualmente letti dalla Meloni, ha contestato a Renzi in persona, con tanto di vistoso titolo di prima pagina, “l’aiutino” per fare “ingrassare Mediaset con spot e soldi pubblici”, fra l’altro, di Eni, Enel e Poste.
Ha appena fatto eco a Marco Travaglio, in qualche modo, addirittura Antonio Polito con un editoriale sul Corriere della Sera in cui, pur riferendosi a certe sortite non di Giorgia Meloni ma del suo alleato segretario della Lega, ha esordito, testualmente: “Non si può escludere che Salvini abbia ragione quando accusa Berlusconi di essersi mosso nella battaglia di Roma spinto da motivi aziendali, perché Mediaset avrebbe bisogno della benevolenza di Renzi”. Evidentemente per fare affari, non per garantirsene la presenza nei salotti televisivi delle sue reti, accolto con garbo e gratitudine dal presidente del gruppo Fedele Confalonieri, com’è accaduto di recente, piuttosto che in quelli della Rai o de La 7.
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Annunciata come una riunione difficile per il suo nuovo presidente, dopo i toni altissimi delle polemiche provocate dalle sue dichiarazioni d’insediamento, diciamo così, contro i politici che non si vergognano neppure più di rubare, la giunta dell’associazione nazionale dei magistrati si è miracolosamente o curiosamente conclusa con piena soddisfazione di Piercamillo Davigo. Che si è dichiarato con i suoi colleghi “sempre pronti al dialogo”, specie ora che il governo sembra abbia messo il turbo alla riforma della prescrizione per allungarne i tempi. Cosa che le toghe chiedono da parecchio per proteggere le loro inchieste e i loro processi dal rischio di perdersi nella scadenza dei termini.
Ma sulla questione degli “insulti” il presidente dell’associazione ha tenuto duro dicendo che sono tali, cioè insulti, solo quelli dei politici ai magistrati, non viceversa.
Se questa è vera disponibilità al “dialogo”, francamente non so. Attendo, diffidente, la prossima puntata dello spettacolo che si trascina da almeno 25 anni: quelli che Renzi ha definito “di barbarie giustizialista”.
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Il generale dell’Aeronautica Militare Vincenzo Manca, già senatore di quello che fu il centrodestra, partecipe di varie e importanti inchieste bicamerali, fiero della caduta giudiziaria, con sentenza penale definitiva, dell’ipotesi bellica della tragedia di Ustica, nelle cui acque si inabissò il 27 giugno 1980 un aereo dell’Itavia, con un bilancio di 81 morti, è impegnato a fare un bilancio economico purtroppo solo parziale del costo procurato alla collettività dalla gestione giudiziaria di quella ipotesi. Che presupponeva un missile lanciato contro un velivolo che in quel momento riportava Gheddafi in Libia, e mancata sorveglianza dello spazio aereo da parte dei Ministeri competenti.
Caduta sul piano penale della giustizia l’ipotesi del missile, dopo quella del cedimento strutturale dell’aereo, che aveva contribuito al default di Itavia, è rimasta in piedi per un po’, sostenuta da pubblici ministeri e soprattutto dal collegio peritale d’ufficio, quella di una bomba collocata ed esplosa nella toilette, per quanto nei rottami costosamente recuperati del velivolo fosse stata trovata intatta la tavoletta del water.
Tra una sentenza penale e l’altra e i paralleli giudizi civili, proseguiti per conto loro, lo Stato ha speso centinaia di milioni di euro per indennizzi e risarcimenti, comprensivi, fra l’altro, di quasi 16 milioni per le famiglie e 31 milioni, sinora. per un assegno mensile di 1.847 euro l’uno a 144 familiari delle 81 vittime, in aggiunta ai trattamenti pensionistici. Tutto questo senza calcolare i costi di 26 anni di indagini e processi penali, con 277 udienze, 4000 testimoni e periti a iosa.
Con tutto il rispetto dovuto naturalmente alle vittime e al dolore dei familiari, e ai militari cui è stato restituito con deplorevole ritardo l’onore dopo essere stati accusati persino di alto tradimento per non avere collaborato con le autorità competenti, c’è da chiedersi se sia stata maggiore la tragedia di quel lontano 1980 o quella consumatasi poi nei tribunali della Repubblica, col solito condimento di libri, film, sceneggiati televisivi e dibattiti fra esperti spesso più presunti che veri.