A dispetto della domenica muscolare, in cui Silvio Berlusconi ha voluto mandare l’ennesimo “avviso di sfratto” a Matteo Renzi e ha declassato ad una eccezione la rottura del vecchio centrodestra consumatasi a Roma attorno alla candidatura di Alfio Marchini a sindaco, da lui sostenuta anche se gli ultimi sondaggi consentiti dalla legge elettorale danno più vicino al ballottaggio con la grillina Virginia Raggi il renziano Roberto Giachetti, gli ex consiglieri berlusconiani del Foglio gli predicono il ritorno forzato al famoso Patto del Nazareno col presidente del Consiglio e segretario del Pd. Gli concedono solo di cambiargli nome e chiamarlo “patto di buon senso”, come ha scritto il direttore fogliante Claudio Cerasa.
L’eccezione sarebbe il centrodestra ricomposto a Milano attorno alla candidatura di Stefano Parisi, non dissimile da quella del renziano Giuseppe Sala. Altrove la strada prevalente è quella di un ballottaggio fra un centrosinistra moderato e un movimento populista come quello grillino, per cui la ”scelta del centrodestra moderato non potrà che essere – ha scritto Cerasa – quella di un accordo con i candidati più di governo: Marchini e Giachetti a Roma, Osvaldo Napoli e Fassino a Torino, Valente e Lettieri a Napoli”.
“Renzi e Berlusconi – ha insistito o ammonito il direttore del Foglio – al netto dei capricci referendari dopo le elezioni capiranno definitivamente che la distanza tra loro è infinitamente più breve rispetto alla distanza che esiste tra i loro alleati tradizionali”. Fra i quali si distingue naturalmente Matteo Salvini con i suoi pressanti inviti a Berlusconi a pagargli prezzi altissimi, per esempio sul versante della politica europea, pur di ristabilire davvero l’alleanza di un tempo. Il segretario della Lega vi è tornato anche nelle ultime ore frenando l’ottimismo dell’ex Cavaliere.
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Marco Pannella, tumulato ormai nella sua Teramo, assisterà ridendo da lassù a questi eterni girotondi della politica italiana. Ma anche alla capriole che si continuano a fare quaggiù per onorarne la memoria contando sul fatto ch’egli non potrà gridare la sua protesta. Per esempio, contro Walter Veltroni. Che, pur senza spingersi dov’era coraggiosamente arrivato Fabrizio Rondolino scrivendo sull’Unità che “la sinistra come la conosciamo oggi in Italia è figlia più di Pannella (e di Craxi) che di Berlinguer e di Moro”, si è vantato, sempre sull’Unità, di aver fatto con il leader radicale nel 2008 da segretario del Pd “un accordo elettorale”, nonostante “fossimo quanto di più diverso si potesse immaginare dal punto di vista caratteriale”. E per quanto quel “fatto nuovo e importante” non fosse piaciuto “anche nel Pd a molti bigotti e a molti ipersinistri”.
Certo, l’accordo ci fu, peraltro su un percorso già tracciato da Piero Fassino come segretario dei Ds-ex Pci, visto che nel secondo governo Prodi due anni prima era entrata anche Emma Bonino come ministra del commercio estero e delle politiche europee. Ma quella di Veltroni fu un’intesa a carissimo prezzo, politico e umano, per Pannella e i suoi amici.
Fu innanzitutto negato ai radicali il cosiddetto apparentamento, che ne avrebbe tutelato meglio peso e visibilità con una propria lista, come fu invece concesso all’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. Che, ad elezioni avvenute, si sottrasse all’impegno di fare gruppo parlamentare unico col Pd. E poi ne condizionò duramente la linea politica, come alleato, sul delicato versante della giustizia per le sue note posizioni allineate alle Procure. Il che contribuì a rendere impraticabile la strada di una riforma costituzionale condivisa fra maggioranza e opposizione auspicata da Veltroni prima del voto con una campagna elettorale soft, in cui non aveva mai attaccato direttamente Berlusconi, parlandone come del “maggiore esponente dello schieramento avverso”.
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Negato l’apparentamento, Veltroni concesse ai radicali nove candidature sicure, fra Camera e Senato: sicure nel senso che sarebbero state collocate nelle parti superiori delle liste del Pd, rigorosamente bloccate col sistema della legge elettorale chiamata Porcellum. Ma fra le candidature era stata esclusa quella di Pannella, negandogli l’eccezione necessaria a chi era stato già eletto tre volte parlamentare, anche se lui non aveva mai concluso i suoi mandati per l’abitudine che avevano i radicali di dimettersi dopo un po’ per fare subentrare i primi dei loro non eletti.
L’accordo risultò disatteso dalle prime decisioni del Pd sulla formazione delle liste, essendo state destinate ai radicali solo quattro candidature sicure, quattro incerte e una senza alcuna garanzia di riuscita. Emma Bonino diede al Pd dell’”inaffidabile e indecoroso”. Pannella ricorse allo sciopero della sete e impugnò contro Veltroni una pistola, per fortuna solo ad acqua: l’unica che uno come lui, campione della “non violenza”, avrebbe potuto permettersi.
Alla fine, sudando le proverbiali sette camicie, Veltroni riuscì a ridurre alla ragione i suoi compagni di partito e a sistemare a dovere le candidatura dei radicali, di cui tre furono eletti al Senato e sei alla Camera. Ma le frizioni con i piddini, specie dopo le dimissioni di Veltroni da segretario, seguite alle sconfitte regionali in Sardegna e in Abruzzo, divennero sempre più frequenti e gravose, tanto che nel 2010 i radicali si autosospesero dai gruppi parlamentari del Pd.
Ogni volta che arrivava in aula qualche richiesta di autorizzazione all’arresto o alle intercettazioni a carico di deputati o senatori, i radicali assumevano le loro tradizionali posizioni garantiste incorrendo negli anatemi dei compagni post-comunisti, superati per insofferenza a Montecitorio solo da Rosy Bindi.