Quando si cominciò a parlare di globalizzazione, all’incirca due decenni fa, si immaginava un mondo molto diverso da quello attuale. Si pensava una realtà planetaria senza più confini rigidi e senza cerniere.
Inoltre il fenomeno era collegato all’estensione del mercato economico in tutti i territori. Vale a dire si ipotizzava una sorta di dislocazione delle imprese dal nord al sud del pianeta. In tal senso le popolazioni dell’Africa, dell’Asia e dell’Oriente venivano considerate stanziali, una sorta di arcipelago di nazioni periferiche in grado di fornire forza lavoro a basso costo e un sicuro flusso crescente di consumi al mondo capitalista.
La novità, non prevista allora con la forza reale verificatasi oggi, è costituita dai flussi migratori. Non soltanto a causa di guerre e carestie i popoli si sono messi in movimento, ma addirittura in Europa e negli Stati Uniti migliaia di migranti entrano in modo incessante e inarrestabile ogni giorno.
In questo senso possiamo dire che al globalismo economico a trazione opulenta si è succeduta una migrazione globale trainata dalla disperazione.
Ora è certo che questa situazione ha fatto saltare non pochi equilibri nel continente europeo, ordinato e organizzato attorno alla libera circolazione interna e all’unione monetaria.
La gente comune è venuta via via identificando il disagio e i costi dei soccorsi e delle presenze straniere con il fallimento di una politica dell’accoglienza che ha reso tutti i Paesi europei vulnerabili e quelli di confine schiacciati tra due fuochi, uno interno e l’altro esterno.
Ora, la gestione di questo complesso processo, che ci vede coinvolti a pieno titolo, incontra una prima grande difficoltà, ben espressa da papa Francesco in moltissime occasioni: da un lato la logica morale dell’accoglienza, che guarda all’intera umanità come un tutto solidale, e dall’altro l’esigenza politica basilare di un ordine sociale determinato, costruito nel tempo attorno a comunità statuali omogenee.
È una contraddizione perché si tratta di due valori importanti non in contrasto per principio, ma che si escludono l’un l’altro nella concreta gestione delle nostre frontiere.
Bilanciare insieme ambedue le istanze, salvaguardando cioè l’esigenza di coesione interna con quella umana di accoglienza, è veramente molto difficile anche se costituisce ovviamente la più importante necessità dell’ora presente. D’altronde l’Unione Europea è arrivata all’appuntamento dell’immigrazione debole e sfaldata politicamente, perciò sollecita ad un ritorno dei popoli alla sicurezza degli antichi Stati nazionali.
L’etica universalista di un mondo aperto ed integrato è impopolare in questo momento, perché l’opinione pubblica condivide più di quanto non si dica la persuasione che si nascondano dietro l’umanitarismo di facciata affari ed interessi politici ed economici di ampia portata, i quali impediscono di tutelare il reale benessere dei cittadini.
Il fenomeno Donald Trump in America, e da noi in Europa Matteo Salvini, Boris Johnson, Marine Le Pen e la destra austriaca, rivelano quanto la posizione reattiva di chiusura abbia materia sufficiente per prosperare. Bisognerebbe però considerare che uno scenario di muri che rinserrano i popoli entro i confini potrebbe avere senso solo in modo transitorio senza potersi presentare come la soluzione finale dei reali problemi che stanno a monte di questa fuga di massa di intere civiltà verso l’Occidente.
Alle politiche reazionarie di chiusura e a quelle di aperture irresponsabili e interessate sarebbe auspicabile, insomma, preferire una grande iniziativa internazionale, unita ad una maggiore capacità culturale di assorbire questi flussi migratori dentro e attraverso le diverse identità europee.
Salvini ha parlato ieri di una sostituzione etnica. Certo, malgrado l’enfasi forse eccessiva, non si può negare che sia un rischio che si corre attualmente, vista la diminuzione della crescita demografica, l’indebolimento di cardini sociali tradizionali e fondativi, come la famiglia, e la forma multireligiosa degli arrivi. La risposta vera, oltre a contenere l’invasione, consiste perciò nel recuperare ed espandere politicamente e culturalmente la nostra identità nazionale di popolo europeo, la cui crisi è di molto anteriore a questa emergenza epocale.
Tutto, anche la solidarietà, per funzionare bene deve essere il risultato di una consapevolezza attiva, di quello stato di coscienza sociale senza il quale si rischia non solo di perdere il controllo del territorio, ma addirittura di mettere a rischio la stessa visione cristiana della democrazia che ci spinge, fuori da ogni confessionalismo e talvolta perfino inconsapevolmente, ad essere tanto sensibili e disposti positivamente verso chi soffre.
Una civiltà forte, in definitiva, non si chiude mai in se stessa. Ma per aprirsi all’altro un popolo deve a maggior ragione avere in sé una coscienza chiara e netta della propria origine e del proprio destino. Perché, più ancora degli immigrati, è tale mancanza d’identità che mette le nostre comunità a rischio, impedendo il prosperare autentico di un clima ottimista di pace e solidarietà globale.