Se il denaro non costa quasi nulla perché Europa e Italia non crescono più vigorosamente e il debito della penisola non si riduce? La domanda è facile, la risposta complicata.
Secondo Jeremy Rifkin ormai la produttività dipende solo per il 20 per cento dal lavoro e dai macchinari e per il resto deriva da componenti diverse, come il tasso innovativo, i beni intangibili, la produzione di energia condivisa, l’humus in cui si svolge l’attività, la condivisione di beni e servizi. Una fotografia spiega tutto: per ogni auto affittata in sharing se ne producono 15 in meno. Se la formula della crescita in un’economia così interconnessa, come quella globale, resta ancora da svelare nel Vecchio Continente, è più facile conoscere quella che porta alla riduzione dell’indebitamento, che per l’Italia è l’altra faccia medaglia della mancata ripresa economica dovuta a mille ritardi e colli di bottiglia storici. Anche un bambino, infatti, sa che le feste, in questo caso dei tassi zero, ineluttabilmente finiscono.
La ricreazione sta quindi finendo e non c’è bisogno della sfera di cristallo per fare questa previsione: nella primavera del 2017 l’ombrello della Banca centrale europea si chiuderà e i tassi ripartiranno. L’esito di ciò che accadrà è nei numeri. Già oggi quasi un titolo di stato su due in Europa, su un totale di 5.620 miliardi di euro, offre rendimenti negativi. Apparentemente è il miglior mondo possibile per i governi che si indebitano, ma diventa un problema per i risparmiatori e per le migliaia di Pmi italiane che non hanno goduto degli effetti del “quantitative easing” di Mario Draghi: l’immissione di denaro sulla carta, destinato proprio a loro e che invece, paradossalmente, aiuterà le grandi aziende, comprando i loro titoli obbligazionari. Le piccole medie imprese dipendono infatti quasi del tutto dal sistema bancario, che invece è il primo a essere stato danneggiato dai tassi livello pavimento, perché non riesce a remunerare i suoi impieghi ne’ ad offrire interessi decenti a chi gli presta denaro. Lo ha sottolineato anche il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nelle sue Considerazioni Finali. “I timori espressi da alcuni osservatori che una lunga fase di tassi di interesse molto bassi possa avere effetti destabilizzanti sui mercati finanziari, ripercuotersi sfavorevolmente sui profitti delle banche e degli intermediari o avere implicazioni redistributive non desiderate vanno attentamente considerati, non devono però essere sopravvalutati”, ha rimarcato, cercando di indorare la pillola alla fine del periodo.
La “festa” del denaro facile, targato Francoforte, finora è stata una manna per gli Stati e per le multinazionali, molto meno per gli altri che l’economia la fanno girare. I risparmiatori cominciano a pagare le banche per tenere i loro soldi sui conti correnti, gli istituti di credito fanno lo stesso per parcheggiare la liquidità in Bce, clienti e banche pagano per prestare denaro agli Stati. Impossibile che questa trappola della liquidità sia destinata a reggere: chi sta bene non ha bisogno di prestiti, perché non crede che l’economia crescerà. Chi ha bisogno di credito non lo ottiene, perché non è cresciuto abbastanza e non offre garanzie allo sportello. Gli sforzi delle banche centrali che non fanno altro che comprare titoli non stanno dando i frutti sperati, occorre ammetterlo.
I 781 miliardi di euro di bund con tassi negativi (75 per cento del totale) spiegano perfettamente perché la Germania stia tentando di forzare la mano al presidente della Bce, Mario Draghi, affinché sospenda gli acquisti di bond governativi e aumenti i tassi. Con tutti i pericoli per noi italiani. E anche qui Visco sembra esserne consapevole, quando afferma che “i tassi d’interesse molto bassi o negativi possono incidere sfavorevolmente sulla redditività di investitori istituzionali e banche”. Assicurazioni e fondi pensione comprese. Il conto alla rovescia della fine dell’era del tasso zero è quindi cominciato, anche se nessuno vuole ammetterlo apertamente, ma di questo dovrebbero esserne consapevoli sia il nuovo presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, che l’esecutivo di Matteo Renzi.
L’Italia è un paese che cresce poco e con un fardello statale molto elevato, oltre 2.200 miliardi di euro. Per fortuna ancora oggi il Tesoro riesce a pagare un interesse quasi nell’80 per cento dei casi, rendendo più appetibili Btp e Cct. Prima o poi la Federal Reserve americana aumenterà il costo del denaro, forse già in estate, e partirà il ciclo rialzista sugli interessi. Occorre mettersi in sicurezza ora che è ancora festa. E se Visco l’ha paventato, quando ha ricordato che l’Italia faticherà nel 2016 a raggiungere gli obiettivi di riduzione del debito, la Bce è stata ancora più chiara nel suo ultimo Bollettino. Ad invarianza di politiche economiche, senza quindi aumentare le entrate o ridurre le spese, Roma nel 2026 avrà ancora un debito pubblico pari al 110 per cento del Pil, ben sopra quindi il livello del 60 per cento fissato dal Trattato di Maastricht, mentre la Germania nello stesso anno sarà da tempo agevolmente sotto questo tetto. A quel punto le ipotesi sono solo due: o tutto il sistema di controlli previsti da Bruxelles (rientro di un ventesimo all’anno dal debito, pareggio di bilancio, sanzioni con procedure d’infrazione per chi non vi riesce) si concluderà in una “farsa”, come ha già scritto minaccioso il Frankfurter Allgemeine, oppure Roma sarà costretta a effettuare manovre correttive, con impatti depressivi che inevitabilmente ricadranno su famiglie e imprese, proprio quelle che non hanno goduto dei tassi bassi. Le prime sono ancora operate da un peso eccessivo del fisco. Le seconde, oltre la pressione tributaria, dal 2011 hanno visto ridursi di 112 miliardi il credito a loro concesso.
Senza attrezzarsi per tempo e senza riuscire a coglierne gli effetti positivi, i rendimenti negativi e i prezzi bassi si trasformeranno quindi in un boomerang. E di ciò ne è ben consapevole proprio l’Eurotower, che scrive: “Le sorprese negative riguardanti i dati sull’inflazione tendono a rendere più difficile l’osservanza dei requisiti della regola del debito nel breve periodo”. Un calo inatteso dell’inflazione, combinata con una crescita debole “accelera l’accumulo di debito pubblico”. E questo, manco a dirlo, vale a maggior ragione per paesi, come l’Italia, ad alto debito e sempre con il fiato sul collo della Commissione Europea. “La regola del Patto di stabilità e di crescita relativa al debito è stata introdotta come insegnamento importante della crisi del debito sovrano in Europa e dovrebbe essere applicata con rigore”, chiosa la Bce, “in prospettiva occorre assicurare che l’osservanza dei requisiti di riduzione del debito non sia indebitamente ritardata”. Se dunque la formula della crescita è ancora da trovare, quella del Taglia-debito deve essere prontamente messa in cantiere. Draghi e Visco, ognuno a suo modo e senza fare incendiario, ci hanno avvisati.
(Articolo pubblicato sul quotidiano Mf/Milano Finanza diretto da Pierluigi Magnaschi)