Immaginate una legge elettorale che assegni il 65 per cento dei seggi alla coalizione che raggiunga il 50 per cento più uno dei voti validi espressi. Secondo Eugenio Scalfari è più plausibile dell’Italicum, come ha ribadito nel confronto con Matteo Renzi all’Auditorium di Roma. Sessantatre anni fa, al contrario, quella legge fu considerata un imbroglio e divenne teatro di una “patria battaglia” che appartiene alle mitologie della storia repubblicana. Ma, come per tutte le mitologie, il suo nucleo di verità è controverso. La “legge truffa” del 1953 (la definizione si deve forse a Piero Calamandrei) è stata infatti interpretata sia come un cupo episodio della restaurazione postbellica, sia come il tentativo di garantire una governabilità messa a repentaglio dalla frammentazione partitica.
Dopo la vittoria del 1948, la Dc navigava in acque tutt’altro che tranquille. Alcide De Gasperi deve fare i conti con una Dc e con alleati divisi e inquieti, in una fase in cui le tensioni tra i due blocchi – inasprite dallo spettro del conflitto coreano – si riverberano pesantemente sul nostro Paese. È in questo contesto che si colloca il suo disegno di “democrazia protetta”. Per usare la sua celebre metafora dell’autobus, lo Stato non doveva più essere solo il controllore che si occupa unicamente di timbrare i biglietti dei passeggeri, ma doveva decidere chi poteva e chi non poteva salirvi. Per questo occorreva un meccanismo maggioritario che blindasse la formula centrista.
I mentori della svolta (Consiglio nazionale di Anzio, 21-24 giugno 1952), oltre a De Gasperi, sono il segretario del partito Guido Gonella e Paolo Emilio Taviani, che ne rivendica addirittura la paternità. Giovanni Gronchi, invece, critica “il ricorso ad artifici legislativi che violentano le norme e lo spirito della Costituzione”. Anche Luigi Sturzo, che non aveva mai nascosto le sue simpatie per il sistema uninominale, condanna “quel premio di maggioranza, che il fascismo volle come suo primo atto elettorale a cui fece seguito la soppressione, prima parziale poi completa, del regime rappresentativo”.
Dopo il Consiglio di Anzio, socialdemocratici, repubblicani e liberali avviano con la Dc una trattativa serrata, che verteva su un punto cruciale: come ripartire il premio di maggioranza in modo da non essere penalizzati nel gioco della distribuzione dei seggi. Il 15 novembre Dc e Psdi, Pri e Pli firmano l’accordo di collegamento: nasce il “polipartito di governo”. Il 7 dicembre inizia alla Camera il breve ma burrascoso iter parlamentate della legge.
Il 18 gennaio 1953 viene votata a Montecitorio la riforma elettorale. Per i socialcomunisti e per il Msi, una legge liberticida. Per la Dc e i suoi alleati, una specie di ultima spiaggia per la democrazia italiana. Fuori dal coro, l’intellettualità laica che orbita attorno alla rivista diretta da Mario Pannunzio (tra cui lo stesso Scalfari), “Il Mondo”. Dopo aver stigmatizzato la condotta di Psdi, Pri e Pli divenuti “servi dei democristi”, Gaetano Salvemini sulle sue colonne indica la necessità di riunificare lo schieramento laico in una “terza forza”. Piero Calamandrei e Ferruccio Parri – insieme a Antonio Greppi – danno vita al movimento di Unità popolare, dietro cui si schierano quanti cercavano nel sistema politico italiano gli spazi per una “terza via”. Tra questi: Arturo Carlo Jemolo, Nicola Abbagnano, Norberto Bobbio, Carlo Levi, Leo Valiani, Mario Soldati, Bruno Zevi.
L’8 giugno 1953 si chiudono i seggi e cominciano le operazioni di scrutinio. Una settimana dopo vengono ufficializzati i risultati definitivi. L’affluenza alle urne era stata del 93,8 per cento. Il quorum non scatta per cinquantasettemila voti, a fronte di un milione e trecentomila schede bianche, nulle o contestate. Negli ambienti vicini al governo il Pci viene accusato di brogli. In un incontro con l’ambasciatrice americana Clare Boothe Luce, De Gasperi attribuisce alla competizione sfrenata tra i candidati di uno stesso partito (il famigerato “assalto alle preferenze”) la causa principale dell’elevato numero di voti invalidati.
Pietro Nenni titola il suo editoriale sul quotidiano socialista: “Eppure è successo qualcosa di grosso”, ossia la débacle del “regime degasperiano”. Nel mondo cattolico, la rivista “Vita e Pensiero” pubblica un duplice intervento di Carlo Colombo che non escludeva un futuro dialogo con il Psi. Il teologo di fiducia di padre Gemelli piantava così uno dei primi semi di quell’apertura a sinistra che avrebbe visto la luce un decennio dopo.
(Fonte foto: www.governo.it)