Giovedì 23 giugno la Gran Bretagna ha deciso con un referendum di uscire dall’Unione Europea. Le conseguenze sono per il momento incalcolabili, i mercati hanno reagito in modo terrorizzato, il prezzo del petrolio è calato, la sterlina ha toccato i minimi nel rapporto col dollaro dal 1985, l’indice britannico FTSE 250 (che raduna l’andamento di alcune delle principali aziende britanniche quotate in borse), è sceso all’inizio dell’11,4 per cento, baratro storico, dice il Financial Times, il primo ministro inglese David Cameron ha già annunciato le sue dimissioni (arriveranno, pare, in ottobre). I contraccolpi sono globali.
TEMPI LUNGHI
Nel frattempo, mentre gli analisti cercano di comprendere quali saranno le conseguenze, in molti si interrogano su che cosa succederà adesso nel Regno Unito, o meglio, come farà la Gran Bretagna a lasciare l’UE. In questo momento i britannici sono ancora un membro effettivo dell’Unione, ma dal momento che il dato è acquisito inizia di fatto il processo di split. Sebbene va ricordato che il risultato referendario non obblighi il governo ad agire, probabile che toccherà proprio a Cameron comunicare formalmente al Consiglio d’Europa la decisione presa con la votazione referendaria: è un’ironia della sorte, perché era stato il leader dei conservatori a convocare il referendum nel tentativo di spazzare via le posizioni anti-europeiste interne al proprio partito, quasi certo di una vittoria schiacciante, e invece. Boris Johnson, ex sindaco Tory di Londra e tra i principali sostenitori del Leave, ha già chiesto giorni fa al compagno di partito (pro-Remain) Cameron di avviare egli stesso il percorso per via dei rapporti già instaurati con gli uomini delle istituzioni europee. Ci saranno tempi lunghi. La legge di uscita – chiamiamola così – non potrà essere varata velocemente, perché i rapporti legislativi tra Gran Bretagna ed Europa sono regolati da una serie di accordi derivanti da trattati che sono direttamente frutto dell’appartenenza del Regno Unito all’UE: si tratta di quegli aspetti che regolano il “mercato libero”, inteso di merci, capitali e persone (sono quelli che permettono di viaggiare a Londra soltanto con la carta d’identità e grazie ai quali chiunque può andare a studiare in un’università europea o aprire un conto bancario in un paese membro). Vicende interne, tra cui le dimissioni del governo-Cameron e la nomina di un nuovo esecutivo, potrebbero rallentare ulteriormente il processo. Altre questioni: a Londra è già nata una petizione su Charge.org per chiedere l’indipendenza della città (fortmente europeista) e la riannessione all’UE
DUE SCENARI PER IL FUTURO DEI RAPPORTI
L’atmosfera attorno al risultato è tesa: i leader politici dell’Unione Europea si erano tutti schierato per il “Remain“. Jean-Claude Juncker, il presidente della Commissione europea, ha dichiarato mercoledì che “fuori è fuori”, lasciando apparentemente pochi spazi di negoziazione. Ci sono due diverse interpretazioni a proposito: chi sostiene che alla fine l’Europa dovrà guardare ai propri interessi e cedere a concessioni alla Gran Bretagna per garantire la propria sopravvivenza economico-commerciale, e chi invece, come l’Economist, sostiene che difficilmente gli europei adotteranno una linea morbida, perché questo vorrebbe dire prestare il fianco ad esperienze analoghe che potrebbero arrivare da altri paesi dove le posizioni euro-scettiche sono molto forti, Olanda, Francia e Austria, per esempio (ma anche l’Italia, con la Lega).
COME SI VA AVANTI?
Secondo il Financial Times ci sono indicazioni su come procedere “in pratica”, messo tra virgolette perché come detto, e differentemente da quanto propagandato dai sostenitori della Brexit, è tutt’altro che facile. Sono contenute nell’Articolo 50 del Trattato di Lisbona, ma la realtà è che nessuno ha in mente chiaramente il percorso, perché non è mai successo che un paese uscisse dall’UE – l’esperienza della Groenlandia, indipendente dalla Danimarca e uscita nel 1982 da quella che ai tempi si chiamava ancora Comunità Economica Europea, appartiene ad altri periodi e aveva a contorno provvedimenti unitari molto più deboli (eppure le trattative durarono tra anni). “Siamo di fronte a una serie di domande folli e non saremo in grado di rispondervi presto” ha dichiarato anonimamente un alto funzionario UE al giornale economico londinese, che spiega che in generale i rappresentati europei dicono di trovarsi in una “terra di nessuno” giuridica e politica.
GLI STEP
L’Articolo 50 prevede un tempo di due anni di trattativa durante il quale il paese uscente (che resta membro, cioè deve ottemperare alle regole dell’Unione, ma non partecipa ai processi decisionali) e le istituzioni europee possono contrattare i nuovi termini dei rapporti. Passato questo periodo l’Europa formula una proposta, che può essere accolta o meno dalla nazione che vuole uscire. C’è possibilità di proroga dei tempi, ma soltanto se la decisione è condivisa: se, per esempio, l’Europa dovesse tenere fino in fondo la linea dura annunciata da Juncker e prevista dall’Economist, potrebbe essere possibile che fra due anni la Gran Bretagna si troverà davanti una proposta “salta o muori”. In realtà, inoltre, i negoziati saranno due, paralleli, perché mentre si procederà per decidere i termini dell’uscita, si cercherà di trovare nuovi accordi commerciali con discussioni su altri tavoli (anche se interconnessi). Stabilite le regole di uscita e i nuovi rapporti sui commerci, la Gran Bretagna potrà muoversi indipendentemente: la proposta di uscita, con ogni probabilità, sarà votata dal parlamento e a quel punto il Regno Unito sarà del tutto fuori dall’ Unione Europea. Secondo stime effettuate dal governo inglese, tutta la serie di negoziati potrebbe durare “anche dieci anni”.
(Foto: David Cameron durante il discorso con cui ha annunciato le dimissioni era accompagnato dalla moglie Samantha)