Nel consenso o nel dissenso, GiulioTremonti merita vero e pieno rispetto. Nel panorama non sempre intellettualmente appassionante della politica italiana, è senz’altro tra i pochissimi attori che abbia cercato, e tuttora cerchi, di far discendere le azioni da un pensiero, da una lettura, da una visione, condivisibili o meno che siano.
Oggi Giulio Tremonti, con lo sguardo dell’osservatore acuto e una prosa peculiare e caratteristica, pubblica per Mondadori il nuovo saggio “Mundus furiosus”, seguito e sviluppo ideale dei suoi libri precedenti, caratterizzato sempre dal focus sulla crisi dell’Europa (tessera del mosaico della più vasta crisi occidentale) e sui fattori che l’hanno causata e aggravata, dalle migrazioni incontrollate all’altalena finanziaria, passando per la messa in discussione “orizzontale” (nelle piazze fisiche e/o in quelle virtuali) delle autorità tradizionali, degli establishment e delle élites.
Così, un immenso ceto medio impaurito, non appena ne ha l’occasione, fa una cosa che tuttora sorprende i cosiddetti “esperti”, ma è invece naturalissima, e perfino prevedibile: contesta e, se può, rovescia chi è al potere. Succede in questi anni di passaggio da una dimensione “nota” ad una “non conosciuta”: nel disordine, la rabbia e la paura prevalgono sulla speranza.
Poche osservazioni sintetiche sui tre punti, a mio parere, più convincenti dell’affresco tremontiano.
Tremonti descrive in modo non solo condivisibile ma lucidissimo l’attuale Ue e le sue degenerazioni: il suo sistematico ripiegamento a-democratico (o forse direttamente anti-democratico); il suo disturbo ossessivo-compulsivo che porta l’Ue a (pretendere di) regolamentare tutto, in un autentico delirio burocratico; e, ancora di più, la “ubris”, la presunzione che induce un “sinedrio” di “illuminati” a pensare di poter prescindere da ogni accountability, di poter sistematicamente guidare i popoli prescindendo dalla loro volontà e, perfino, dal loro coinvolgimento.
Tremonti ha mano felice, in particolare, quando esamina la pretesa europea di normare e regolamentare tutto. Non è il solito catalogo delle follie proprie di ogni attività normativa. C’è qualcosa in più, c’è una specie di “horror vacui “: è come se, per gli euroburocrati non fosse ammissibile uno spazio”libero”, cioè semplicemente “non regolato”. E’ come se qualcuno avesse impostato da anni una folle equazione per cui “non normato” fosse e sia sinonimo di “illegale”. E’ evidente che, se si vuole recuperare uno spazio vitale per cittadini e imprese, questo labirinto va scardinato e smantellato: una semplice “manutenzione” non solo non basterebbe, ma sarebbe tecnicamente improponibile. E il paradosso è che questa normazione così capillare, minuta, ramificata, rischia costantemente di essere superata da quei mutamenti che pure cerca ottusamente di inseguire, in una rincorsa impossibile.
Appare, infine, molto ragionevole, in termini di riforma istituzionale europea, la proposta di una “confederazione”, che rinunci all’imposizione di una rigida uniformità e riconosca realisticamente le diversità esistenti.
Personalmente, però, mi resta un dubbio che definirei “thatcheriano”. Non credo, a questo punto, che si possa puntare su “attrezzi” istituzionali per condurre una battaglia politica liberale in Europa. O meglio: a me pare che la battaglia politica sui “contenuti” debba avere priorità su quella relativa ai”contenitori”. O, per dirla in termini meno perentori, che almeno vadano condotte insieme e che, senza la prima, la seconda risulti inutile. Il punto essenziale (il punto “thatcheriano”) è che non puoi confidare tanto sulle geometrie istituzionali se non hai lavorato per rafforzare con alleanze efficaci le posizioni pro-mercato, anti-pubblico, anti-dirigismo. E le istituzioni devono essere ricondotte alla loro natura: quella di mezzi per realizzare questi obiettivi (o almeno per non sabotarli, comprometterli, danneggiarli), non il contrario, con l’Ue divenuta ormai un fine in sé.