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Perché Regno Unito e Unione Europea sono quasi incompatibili

La si può pensare come si vuole. Un fatto è, tuttavia, incontrovertibile. Alla fine due diversi tipi di capitalismo non sono riusciti a convivere sotto lo stesso tetto e il divorzio è risultato inevitabile. Da un lato il modello anglo-sassone, tutto mercato. Dall’altra l’economia sociale, seppur coniugata nelle due forme distinte: il colbertismo e il modello renano. Parigi da un lato, Berlino dall’altro. Il primato dello Stato su quello delle istituzioni finanziarie.

Analizzata in questa chiave la questione dei rapporti tra Londra e il resto dell’Europa acquista un significato particolare. Quelle continue concessioni richieste e accordate, altro non erano che un giusto prezzo da pagare. Un’economia minoritaria, come quella inglese, per preservare la propria individualità, in un ambiente così diverso, non poteva che ottenere determinate concessioni. E, a sua volta, il resto dell’Europa, seppure a malincuore, non poteva che concederle. Tuttavia, come si è visto con Brexit, tutto ciò non è bastato a scongiurare il divorzio.

Che succederà ora in Europa? Ciò che avverrà in Gran Bretagna, ovviamente, interessa meno. Il suo tradizionale ponte sull’Atlantico, del resto, continuerà a funzionare. E’ pertanto prevedibile che quel legame americano, costituito da identità strutturali e una storia in gran parte comune, non s’interromperà. Ma come reagirà l’Unione europea al fallimento della precedente contaminazione? Accentuerà i caratteri statalistici della sua politica? Renderà ancora più stringente il suo connaturale dirigismo? O tenterà nuove strade, se non altro per dimostrare che, anche senza l’Inghilterra, l’economia sociale di mercato ha raggiunto, ormai, una sua maturità? Interrogativi inquietanti che richiedono attenzione.

L’Unione europea, con i suoi 450 milioni di abitanti (esclusi gli inglesi), resta uno dei grandi soggetti dell’economia globalizzata. Che a sua volta è nata e si è sviluppata sopratutto grazie alla forza del mercato, la cui dinamica ha travolto vecchie barriere, abbattuto confini e annientato vecchie ideologie. L’Urss muore perché non è in grado di reggere una competizione economica che richiede crescenti spazi di libertà. La Cina comunista, invece, ne copia gli “animal spirits” per poter far sopravvivere il potere dispotico del Partito da sempre al potere. “Se vogliamo che tutto resti com’è, bisogna che tutto cambi”, diceva Tancredi al Principe Salina, nel Gattopardo.

E allora rompere con l’Inghilterra, per non aver avuto la forza di bere fino in fondo l’amaro calice del liberismo, comporterà un rigurgito autarchico nei confronti della globalizzazione? Vale a dire nei confronto di un’area che va dagli Stati Uniti alla Cina, dal Giappone all’estrema punta sud dell’America Latina? Angela Merkel, in un suo recente intervento, si propone e propone all’Europa di “ridurre la frattura tra vincitori e perdenti della globalizzazione” grazie a un’Europa più competitiva. Difficile non essere d’accordo. Ma come? Puntando sulle caratteristiche del colbertismo e del modello renano? Oppure camminando sulla scia derivante dagli impulsi del libero mercato. Che richiede quelle coerenze sociali che finora sono largamente mancate.

La frattura di cui parla la Merkel può essere ricomposta seguendo due linee alternative. Addestrando i perdenti di oggi, per farli divenire i vincenti di domani. Ricorrere invece a un pietismo compassionevole, basato sulla semplice redistribuzione di una ricchezza destinata, nel tempo, a scomparire, se non giornalmente alimentata. Né può valere l’obiezione sulla scarsa credibilità del leader tedesco, che predica bene ma razzola male. La linea della competitività si basa sul maggior impegno dei singoli, ma non risparmia la miopia degli Stati. Non assolve la Germania e il suo “immenso” surplus valutario che condanna alla deflazione il resto del Continente. Ma proprio per questo motivo occorre evitare di fornire ulteriori alibi. E l’unico modo per farlo é dimostrare una coerenza inattaccabile.


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