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Isis, Dacca e l’indignazione ipocrita

Lingotto, 5 stelle, molestie

Gli esseri umani sono tutti uguali nel loro elemento comune: l’umanità, appunto. Ma non c’è dubbio che noi proviamo più compassione per quei morti che entrano nella nostra orbita visiva o che sentiamo più vicini per appartenenza geografica o culturale. Vedendo quello che a loro capita, pensiamo che anche a noi sarebbe potuto capitare: ci immedesimiamo, proviamo “simpatia” (nel senso etimologico e classico del termine), ci carichiamo di parte del loro dolore. Nove italiani sono morti a Dacca: si aggiungono ai tanti morti per mano dell’ISIS, cioè dei barbari del nuovo secolo, ma la loro morte ci fa più impressione rispetto a quella degli altri. Ogni volta che succede un episodio come quello di Dacca anche qui da noi, cioè in un Paese che non è stato per fortuna ancora toccato dalla furia omicida di questa nuova barbarie, ci si indigna, ci si commuove, si afferma che il nostro impegno deve essere a che mai più ciò possa accadere. Ma, puntualmente, già poche ore dopo, si riprende la vita normale, si tende a rimuovere l’accaduto, ahimè anche a minimizzarlo.

Non riusciamo nemmeno bene a identificarlo: per paura, per un malinteso buonismo, per pregiudizio ideologico. Non ci accorgiamo che il terrorismo è nell’orizzonte di possibilità di una religione come l’Islam, che non ha ancora fatto i conti con la modernità. Ci rifiutiamo di mettere in chiaro i nostri principi verso la comunità musulmana che cresce sempre più anche nelle nostre terre. È tragico dirlo, e anche un po’ di cattivo gusto, ma l’augurio che in queste ore ci si può fare è uno solo: che la morte dei nostri connazionali serva a qualcosa, che la “simpatia” per loro faccia scattare nelle nostre coscienze quella molla che gli ormai innumerevoli episodi di questa guerra dichiarata e diffusa al mondo occidentale non hanno fatto ancora scattare nella maggioranza degli italiani.

Può essere retoricamente efficace, in questo momento, che il presidente del consiglio dica che “l’odio non trionferà”, ma si tratta di un’affermazione anche molto consolatoria. L’odio non trionferà, non perché provvidenzialisticamente il bene trionfa sempre, ma perché, e solo nella misura in cui, noi lo vorremo. La civiltà, come la ginestra di Leopardi, è un fiore fragile sempre minacciato dalla forza distruttrice e cieca dell’irrazionalità. Come ho già affermato in altre occasioni, il terrorismo islamico non si sconfigge solo con la prevenzione e con le azioni di intelligence e polizia, che pur sono indispensabili. Quel che si impone è una battaglia culturale, un prosciugamento del terreno in cui esso trova complicità o indifferenza. E una messa in chiaro dei nostri principi, di quelli su cui non possiamo transigere.

Su questo terreno, non solo le classi dirigenti italiane, intellettuali e politiche, sono in ritardo, ma sembrano addirittura assenti. Occorre muoversi, ovviamente di concerto con gli altri stati occidentali, con molta più decisione. Prima che sia troppo tardi. L’indignazione suona come ipocrisia non si passa all’azione.


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