Può sembrare un paradosso, ma in epoca di globalizzazione nulla sta insegnando così bene agli italiani la geografia come il terrorismo islamista. L’Islam è presente in vari agglomerati in ogni parte del mondo. Che lo si voglia ammettere o meno, è in queste concentrazioni che nasce e attecchisce il seme del terrorismo. Che non è quasi mai spontaneo, ma quasi sempre strategicamente importato e sviluppato da una o entrambe le sue case-madri globali: al-Qaeda e Isis. Molto spesso, in conflitto di potere. In comune hanno l’odio per l’Occidente, per gli stranieri in genere e per i loro correligionari di confessione sciita o, comunque, non sunnita.
Ma l’origine non è solo confessionale. Il Bangladesh non sfugge a queste logiche. La gran massa di cittadini – con 140 milioni di abitanti è uno dei Paesi più popolati del mondo – vive in condizioni disagiate, spesso sotto sfruttamento, vicino o sotto la soglia di povertà. E’ tuttavia una popolazione vivace, intraprendente, alla continua ricerca di luoghi verso cui andare a cercar fortuna. E un popolo di migranti potenziali, racchiuso da un confine, con lunghi tratti di “muro”, ricavato da un’enclave di oltre 4000 chilometri all’interno dell’India. Il governo, non confessionale, utilizza assai poco il guanto di velluto.
Circa un milione, per la maggior parte musulmani, sono emigrati in India, ma i governi induisti locali non li vogliono. La caccia al migrante è spietata. D’altro canto, la separazione che aveva portato nel 1947 alla formazione del Pakistan era di natura confessionale, e tendeva proprio a separare i musulmani (cacciati verso nord) dagli induisti. Con il governo indiano nazionalista di Nerenda Modi, la situazione dei musulmani è ovviamente molto peggiorata. Noi, concentrati da anni sul terrorismo islamico proveniente da Medioriente e Nordafrica, sinora abbiamo fatto poco caso all’enorme bacino di potenziali jihadisti che si andava creando in Bangladesh. Ora, siamo tutti sbalorditi per l’orrenda strage di Dacca: traumatico risveglio dal sonno dell’indifferenza.
Anche se il governo locale tende a non ammetterlo – ed ha cercato di non farlo nemmeno per la strage di Dacca – sono già una decina d’anni che al-Qaeda si è radicata nel paese e compie attentati contro tutti coloro che non siano musulmani sunniti. Da notare che il mix degli abitanti è formato quasi l’89 per cento di musulmani, di cui il 96 per cento sunniti, il 9 per cento di induisti. Al-Qaeda ha quindi avuto buon gioco, tanto da attirare l’attenzione dell’Isis – la sua costola più sviluppata e con mire territoriali – cui le caratteristiche del bacino di popolazione (nel Paese è all’estero) è sembrato altamente appetibile. La strage degli italiani, quindi, può essere stata strumentale a questa lotta intestina, e utilizzata quale avviso mafioso: “State attenti, da oggi, ci siamo anche noi!”.
E’ un’Isis che alza la testa in un momento di débacle militare, tentando di dare un segnale di presenza globale sopra tutto all’interno del mondo musulmano. Perché colpire gli italiani? Perché sono stranieri, come i cinesi, i turchi, i francesi, gli americani e tutto il resto del mondo. Ma, secondo le statistiche, la maggior parte delle vittime del terrorismo islamico sono musulmane. Nel 2014 la cifra globale si aggira sulle 33 mila unità, con la palma di questo attivismo che va a Boko Haram, in Africa. La Nigeria è il primo Paese per numero di uccisioni subite, mentre l’Iraq conserva ancora stabilmente il primo posto.
Le vittime occidentali sono appena una minima frazione, mentre il 78 per cento sono state uccise in Iraq, Nigeria, Afghanistan, Pakistan e Siria, cui si accoda la Libia. Sul fatto che la lotta sia innanzi tutto all’interno del mondo musulmano non c’è quindi ombra di dubbio. L’attacco all’Occidente non sembrerebbe, stando a questi dati, obiettivo primario, ma la “lotta agli infedeli” è stata sempre uno sfruttato obiettivo di propaganda e motivo di legittimazione. Questo ci induce a comprendere che le sconfitte militari dell’Isis a livello locale sono importanti soprattutto quando è possibile distruggere, contestualmente, tutti gli elementi che lo compongono.
Ma il braccio militare, forse, è ancora quello meno sviluppato. Le cellule dormienti (ma sempre più attive) che si dedicano all’azione terroristica sono la componente più preoccupante, perché non si sconfiggono con l’esercito, la marina e l’aviazione, che pure sono indispensabili. Non si può, ovviamente, bombardare tutto il mondo. Che vogliamo fare, bombardare anche il Bangladesh con “attacchi mirati”? Ridicolo ed inutile.
Questo non significa rassegnarci a convivere con il problema, cosa che, comunque, per molti anni dovremmo abituarci a fare. La soluzione, nel lungo termine, sta in un misto bilanciato di azione militare, di intelligence e di polizia, con la premessa che tutto ciò serve solo ad eliminare gli effetti, non le cause. Che si eliminano non solo con un “piano Marshall globale”, ma con un altrettanto globale mutamento di assetto culturale dei popoli. Di tutti i popoli, compreso l’Occidente. Utopia? No, solo obiettivo cui tendere nel lunghissimo termine.
Ora, dopo Dacca, vanno però rasserenati gli italiani. I lavoratori regolari del Bangladesh in Italia, in genere musulmani, sono circa 100 mila, per lo più concentrati a Roma, nel Lazio e in Toscana. Vivono in comunità piuttosto chiuse, ordinate al loro interno per ceto e per censo, ma sono giudicati lavoratori capaci, pazienti e attenti. Non pochi hanno raggiunto in proprio un livello imprenditoriale. Non badano troppo alla politica, sono pacifici, refrattari ad eventuale propaganda confessionale e badano, sopra tutto, a conservare il loro lavoro e ad inviare quanto più possibile dei propri risparmi alle famiglie in patria.
Questo sembrerebbe un dato di fatto abbastanza rassicurante.