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Perché gli italiani investono in Bangladesh

Interessi strategici e economici in diverse aree di crisi stanno obbligando il governo italiano a nuove strategie per la sicurezza nazionale: i fatti del Bangladesh, con cui l’Italia ha un ottimo rapporto d’interscambio commerciale, sono stati la leva che ha portato l’esecutivo di Roma a una reazione immediata.

IL PEGGIORE ATTACCO CONTRO ITALIANI DEL DECENNIO

Tra giovedì e venerdì atterrerà a Ciampino l’aereo speciale che la Farnesina e lo Stato maggiore della Difesa hanno messo a disposizione per riportare in patria i connazionali uccisi nell’attentato condotto da radicali islamici in un ristorante internazionale nel distretto diplomatico della capitale del Bangladesh, Dhaka. Si tratta della strage di italiani più grave dopo quella di Nassirya (quando il 12 novembre del 2003 un camion bomba fu lanciato contro la base Maestrale dei Carabinieri italiani nell’area meridionale dell’Iraq, con ogni probabilità per ordine di colui che fu il prodromo ideologico e organizzativo dello Stato islamico, Abu Musab al Zarkawi). Quello che è successo all’Holey Artisan Bakery nella serata di venerdì ha messo già in cambiamento le regole sulle alleanze italiane con alcuni paesi a rischio.

IL RISCHIO DI PARTNER POCO AFFIDABILI

Già mentre era in corso il lungo assedio, durante il quale gli ostaggi sono stati giustiziati, il premier Matteo Renzi aveva avviato consultazioni urgenti con i vertici dei ministeri di Esteri e Difesa e con i direttori delle intelligence. Dalle riunioni dell’unità di crisi è uscita un’importante decisione dal carattere politico (di politica estera): un team di funzionari dei servizi andrà in Bangladesh per procedere con un’investigazione indipendente. L’obiettivo è capire cos’è successo, ma soprattutto è verificare, insieme all’ambasciata locale, possibili rischi che vicende del genere si ripetano, sensibilità e debolezze della struttura di sicurezza bengalese, e prendere provvedimenti (condivisione di informazioni, eventuali addestramenti e training, supervisione). Ora la strategia del governo verterà su questa linea: rafforzare la collaborazione con stati critici in cui si dipanano comunque gli interessi nazionali. In un’ipotetica lista, il Bangladesh (di cui l’Italia è storicamente il quinto principale partner commerciale) sarebbe in testa, visto anche le dimensioni dell’accaduto. Nel paese l’estremismo dilaga mentre il governo non prende adeguati provvedimenti: è una circostanza già nota agli analisti, riportata drammaticamente in cima alle priorità occidentali (e italiane) dai tragici fatti dell’Holey. Ancora ieri il ministro degli Interni bengalese dichiarava che nel suo paese non ci sono evidenze di attecchimento delle istanze dell’Is (ma i giovani, ricchi e radicalizzati, che hanno colpito, forse anche solo per la macabra moda dell’estremismo, si erano fotografati davanti alla bandiera con la shahada monoteista califfale), e che gli attacchi arrivano da gruppi radicali che come obiettivo hanno, in pratica, la lotta politica all’esecutivo.

IL DOPPIO BINARIO DI ROMA

Sono dichiarazioni preoccupanti che non sfuggono ai partner commerciali come Roma, perché dimostrano l’impreparazione delle forze governative di Dhaka, che cercano di minimizzare la situazione, alzare il livello (già alto) dell’autoritarismo, anche per non perdere il contatto proprio con i ricchi afflussi economici legati agli interessi occidentali nel paese. È per questo che Renzi avrebbe scelto di aumentare lo scambio di informazioni e rafforzare la presenza di l’intelligence “diretta” (ossia, sul luogo) all’ambasciata di Dhaka. Il timore che gli italiani possano finire nel mirino di nuovo, con il rischio di azioni ancora più mirate, ha portato il governo italiano a muoversi su un doppio binario, quello dell’intelligence e della diplomazia appunto, “che ha per cabina di regia Palazzo Chigi”, scrive Fiorenza Sarzanini sul Corriere della Sera.

LA NOTA DELL’AMBASCIATA ITALIANA A DACCA

Il pil del Bangladesh ha segnato negli ultimi anni tassi di crescita positivi (nel 2015 +6,5% sull’anno precedente), e le agevolazioni fiscali nelle importazioni e la politica liberale di incoraggiamento agli investimenti esteri permettono al paese di essere appetibile per chi ha interesse nella trasformazione in loco delle materie prime. Perderlo per l’Italia sarebbe controproducente, e dunque meglio investire nel rafforzamento delle misure di controllo e sicurezza. In un’analisi pubblicata sul sito dell’ambasciata italiana a Dhaka si scrive: “A favore di decisioni ad investire va considerato anche il fatto che il Paese conta su una vasta base di forza lavoro giovane ed a basso costo, su un mercato interno di 160 milioni di persone circa e sul vasto bacino asiatico grazie alla sua posizione geografica”. Il quadro disegnato per il Bangladesh dall’ambasciata italiana è il seguente: “Il PIL ha registrato un tasso di crescita stimato del 5,9% nell’anno finanziario (1-7-2008/30-6-2009). Il maggior contributore alla formazione del PIL resta pur sempre il settore dei servizi; anche l’industria ha segnalato una ripresa. La finanziaria 2008- 2009 ha confermato le agevolazioni fiscali all’importazione di materie prime e macchinari, in alcuni casi anche ampliandole. Continuano, pertanto, a sussistere possibilità di esportazione nel settore del macchinario, particolarmente quello relativo al settore tessile e quello della lavorazione delle pelli, nonché delle apparecchiature”. L’approccio nella politica commerciale e nei rapporti con gli investitori stranieri è “piuttosto liberale”, scrive l’ambasciata. Infatti, sottolineano i diplomatici italiani, “gli investimenti esteri sono incoraggiati e sono equiparati a quelli locali per quanto riguarda le politiche fiscali e quelle relative alle importazioni/esportazioni anche se, di fatto, decisioni definitive rispetto alle proposte di investimento avanzate, soprattutto da parte di grandi gruppi, possono prendere il loro tempo”. Di regola – rimarca l’ambasciata italiana – “non è prevista l’autorizzazione preventiva, è ammessa la proprietà estera,non vi sono restrizioni al rimpatrio del capitale investito e di dividendi ed il rischio di esproprio è contenuto”

IL REPORT DELLA SACE SUL BANGLADESH

Sace, società del Gruppo Cassa depositi e prestiti ora presieduta da Beniamino Quintieri (nella foto), che offre prodotti assicurativi e finanziari per le ditte italiane che investono all’estero (dal credito all’esportazione, all’assicurazione del credito, protezione degli investimenti, garanzie finanziarie, cauzioni e factoring), considera il Bangladesh il 74esimo paese del mondo per l’export italiano e i dati sono eloquenti di come il trend di crescita sia costante negli ultimi anni e nelle previsioni future, da qui l’interesse di Roma ad avere massimo controllo sulla situazione interna.

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IL BANGLADESH COME PRIMO BANCO DI PROVA

Il Bangladesh è comunque ancora al 174esimo posto dell’indice Doing Business della Banca Mondiale (l’Italia è al posto 45 su 189 stati valutati) e al 142esimo sui 188 paesi valutati dalle Nazioni Unite per l’indice di sviluppo umano (indicatore delle qualità della vita valutato secondo tre fattori: Pil procapite, secolarizzazione, aspettative di vita), a pesare soprattutto un ridistribuzione delle ricchezza detenuta per il 41,4 per cento dall’élite ricca, che rappresenta un decimo della popolazione. Adesso l’escalation di violenza terroristica segnata dal grande attacco di tre giorni fa, il primo dopo una fitta, continua serie di azioni minori registrate non troppo attentamente negli ultimi due anni (in una, nel settembre del 2015, rimase ucciso un cooperante italiano), alza il livello della minaccia alla sicurezza nel paese. Gli italiani rimasti uccisi nell’attentato di venerdì erano tutti in Bangladesh per lavoro, business legati al settore del tessile e dell’abbigliamento, che, insieme alla vendita di macchinari (in calo però sul primo trimestre 2016 di oltre il 60 per cento), è il settore più forte nei rapporti commerciali con l’Italia; diverse aziende hanno spostato là le produzioni, è il caso per esempio della Star international di Claudio Cappelli, uno degli italiani uccisi.

CONTRASTARE LA STRETEGIA DEL TERRORE

All’instabilità istituzionale e politica di alcuni paesi (Sace dà al Bangladesh un indicatore di “rischio politico” pari a 65/100, per dire l’Iraq è 82, la Turchia, alleato Nato, è 60), in questo momento si somma la strategia terroristica, veicolata soprattutto dallo Stato islamico. Si susseguono attacchi dei baghdadisti contro le strutture economiche di nazioni come la Turchia o l’Egitto, ma anche al Qaeda in Mali ha preso di mira un hotel internazionale, con il fine di massimizzare l’effetto. Colpire gli occidentali significa ricevere copertura mediatica assicurata e allo stesso tempo intaccare importanti collegamenti economici che legano certi stati musulmani al mondo secolarizzato. È uno degli aspetti su cui si srotola parte della narrativa jihadista indirizzata al proselitismo nell’ottica dell’Occidente che “inquina i veri credenti”; complesso per chi si trova a vivere in certe zone: una ragazza italiana intervistata da Viviana Mazza, sempre sul Corsera, ha raccontato che “la tensione era crescente”, la situazione tesa da tempo, e l’Undss, che è il dipartimento per la sicurezza delle Nazioni Unite aveva invitato gli stranieri a Dhaka a muoversi soltanto nel quartiere diplomatico di Gulash, considerato il più protetto. È stato questo a finire sotto attacco venerdì. Il timore riguarda adesso le intere comunità italiane all’estero. La destabilizzazione conseguente alle azioni contro gli stranieri, gli occidentali, potrebbe portare alla revisione degli investimenti e alla riduzione delle entrate economiche, a questo punta la strategia dei terroristi. Un esempio: la crisi del turismo in paesi dove il settore è predominante seguita alla successione di attentati, è il caso della Tunisia, della Turchia, dell’Egitto, economie non stabili intaccate ulteriormente. Le nazioni occidentali si trovano davanti alla problematica da affrontare: mantenere certi canali aperti è vitale per determinati settori economici, ma allo stesso tempo si rende come necessità stringente alzare le misure per tutelare gli investitori che si muovono in queste aree di crisi. Roma, mentre cerca una via più soft con nazioni come il Bangladesh, sta inviando un vero e proprio contingente militare a tutela dei lavoratori della ditta di costruzioni Trevi, che si occuperanno dei lavori di sistemazione della grande diga di Mosul, in Iraq, in un teatro ancora più caldo, a pochi chilometri dalla roccaforte dello Stato islamico.


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